Beppe Marotta, intervista Gazzetta: Allegri promosso, calcio italiano invece…

di Redazione Blitz
Pubblicato il 27 Dicembre 2014 - 15:33 OLTRE 6 MESI FA
Beppe Marotta, intervista Gazzetta: Allegri promosso, calcio italiano invece...

Marotta (a sinistra) con Nedved e Andrea Agnelli (foto Lapresse)

TORINO – Beppe Marotta fa un bilancio della sua avventura come direttore sportivo della Juventus: il dirigente bianconero promuove mister Massimiliano Allegri nonostante la clamorosa sconfitta rimediata col Napoli in Supercoppa Italiana. Ma Marotta parla dell’aspetto dirigenziale del calcio, di quello che lui ha vissuto alla Juve e di quello che vorrebbe vedere realizzarsi anche nell’ambito della Federazione. Mirko Graziano ha intervistato Marotta sulla Gazzetta dello Sport. Ecco alcuni estratti dell’intervista:

Tempo di vacanze, tempo di un primo bilancio dell’era Allegri.
«Voto 8 a Max e ai suoi ragazzi».

Giustifichi meglio…
«Partiamo dall’inizio. Abbiamo avuto un avvicendamento tecnico in corso d’opera, a stagione iniziata. Ci siamo trovati a scegliere un altro allenatore in 24 ore, e Allegri non ha poi potuto incidere sulle operazioni di mercato. Max si è trovato oltretutto a gestire un gruppo reduce da molti successi, avendo quindi tutto da perdere. E’ stato bravissimo, ha smentito chi non credeva in lui: siamo primi in campionato e fra le grandi sedici d’Europa. E ancora dobbiamo giocarci la Coppa Italia. Insomma, la Supercoppa è un piccolissimo puntino nero su un foglio bianchissimo. Dico bravo al nostro allenatore, esalto la professionalità dei ragazzi e voglio evidenziare anche la solidità della società: il presidente Agnelli, io, Paratici e Nedved siamo accanto alla squadra praticamente ogni giorno, il supporto è totale e appunto quotidiano».

Agnelli-Marotta, mix vincente.
«Il presidente non è un figlio di papà, vanta una bella gavetta, maturata in varie attività, anche all’estero. Io ho portato la mia esperienza calcistica. Vi do uno slogan: “competenza per motivazioni al quadrato=successo”».

Le piacerebbe fra qualche anno dare una mano concreta, sul piano politico, al calcio italiano?
«Sì, mi piacerebbe. Siamo carenti a livello di classe dirigenziale. Oggi non è proprio considerata la competenza specifica delle persone. Aveva ragione Allodi, che spiegava: “Il calcio è l’unico mondo nel quale un muratore diventa architetto il giorno dopo”. Non esiste, non può essere così! Anche nel calcio ci vogliono competenze precise. Non ci si improvvisa direttore generale, manager o chicchessia. Nel nostro calcio ci sono ancora troppi dirigenti improvvisati nei posti chiave. Io combatto per questo. E le colpe vanno spesso a presidenti accentratori…».

Tre cose che farebbe subito per migliorare il calcio italiano?

«Ricominciare a parlare di calcio, e non solo di diritti tv, stadi e violenza. Oggi la grande crisi non è unicamente strutturale, ma riguarda anche la formazione dei tecnici e dei dirigenti, componenti fondamentali per ritrovare qualità fra i calciatori, che sono poi il valore più importante. E qui che la Figc deve agire. Quindi, il campionato va riportato assolutamente a 18 squadre: crescerebbe in qualità, senza ignorare i benefici che ne deriverebbero sui calendari in generale. Infine, terzo necessario intervento, bisogna puntare sulle seconde squadre. Altro che doppie proprietà, cosa che non esiste in nessuna altra nazione. Ci sarà un motivo se in Europa tutti i grandi club hanno le seconde squadre… E’ il modo migliore anche per facilitare il lancio dei giovani, che così resterebbero di fatto tutto l’anno a disposizione della prima squadra, potendo oltretutto sfruttare concretamente la vicinanza di tanti campioni. Il campionato Primavera, per quello che è, non dice nulla tecnicamente. Penso a Coman, classe 1996: ha poco spazio in prima squadra, ma allo stesso tempo non ha senso inserirlo in Primavera. Di fatto, siamo quasi costretti a mandare i giovani migliori a fare esperienza fuori, quindi lontano dal nostro controllo. Fra l’altro, le seconde squadre, in caso di avvicendamento traumatico del tecnico, ti danno la possibilità di promuovere eventualmente un allenatore che già conosce metodi, uomini e storia della società. Guardiola e Luis Enrique sono esempi significativi. Insomma, oltre ai giocatori, ci sarebbe la possibilità di formare in casa anche i tecnici».