Falli, botte e traumi. Uno studio rivela: “Ecco perché i calciatori si ammalano di Sla”

Pubblicato il 15 Gennaio 2011 - 15:25 OLTRE 6 MESI FA

Stefano Borgonovo

Più numerosi sono i traumi fisici che si subiscono nel corso della vita, più è alto il rischio di sviluppare la Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), malattia neurodegenerativa ‘famosa’ anche per aver colpito diversi calciatori professionisti. E’ una delle scoperte di uno studio condotto all’Istituto Mario Negri di Milano, i cui risultati sono stati presentati sabato 15 gennaio. Nella ricerca sono stati intervistati 377 pazienti e 754 persone sane (in rapporto 1:2), dal settembre 2007 all’aprile 2010.

I controlli, spiegano i ricercatori, ”hanno dimostrato un’associazione tra l’evento ‘trauma’ e la patologia della Sla, documentando un rischio relativo di 1,51. I dati raccolti consentono, cosi’, di attribuire inequivocabilmente all’evento ‘trauma’ un ruolo di fattore di rischio per la Sla”. A livello europeo si sta già affrontando uno studio simile, per capire il legame tra questa malattia e i calciatori professionisti, una categoria particolarmente colpita. Successivamente, gli scienziati del Mario Negri hanno voluto verificare se anche il numero di traumi subiti risultasse un fattore di rischio.

”I risultati ottenuti mostrano un andamento lineare: all’aumentare del numero di traumi aumenta anche il rischio di malattia. Il medesimo risultato è stato ottenuto limitando l’analisi ai traumi avvenuti 5 anni prima l’esordio della patologia, escludendo così eventi forse occorsi in epoche successive all’inizio dei sintomi”.

L’analisi dei dati per sottogruppi ha permesso di verificare che il rischio era maggiore nei pazienti maschi e in coloro in cui la malattia era esordita agli arti (esordio spinale). ”Si può dunque concludere – spiega Ettore Beghi, del Laboratorio malattie neurologiche del Dipartimento Neuroscienze del Mario Negri – che l’evento ‘trauma’ sia un fattore di rischio per la Sla, soprattutto se ripetuto e inducente disabilità, e l’associazione è statisticamente significativa. Non sembra invece esserci alcuna correlazione tra il sito di insorgenza della malattia e la sede dei traumi. Effettuando analisi per sottogruppi, alcune variabili da noi considerate solo come confonditori hanno assunto un ruolo ‘interessante’. Il caffé, ad esempio, è risultato quale fattore protettivo in tutte le analisi”.

Tra gli altri studi in atto al Mario Negri, e presentati oggi, ce n’é anche uno nel quale si usano cellule staminali del cordone ombelicale per curare alcuni modelli animali della malattia. ”In particolare – spiega Caterina Bendotti, del Laboratorio di neurobiologia molecolare, che ha lavorato in squadra con i ricercatori guidati da Valentina Bonetto e Lavinia Cantoni – è emerso che il ruolo benefico di queste cellule sulla progressione della malattia nei due modelli non è dovuto alla sostituzione cellulare delle staminali con quelle malate ma, piuttosto, alla produzione e secrezione da parte di queste cellule di fattori crescita e citochine anti-infiammatorie”.