Spagna eliminata, fine ciclo. Il frettoloso funerale del tiki taka

di Emiliano Condò
Pubblicato il 19 Giugno 2014 - 10:48 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – La Spagna torna a casa. Due sconfitte in due partite (non era mai successo, neppure alla mestissima Italia 2010 che almeno rimediò un paio di pareggi stentati) che la squadra campione del mondo in carica subisse un cappotto così. E ora ancora una partita, inutile e persino grottesca, contro l’altra eliminata del girone, quell’Australia che considerando uomini e potenziale ha certamente fatto fino ad ora più degna figura.

La Spagna torna a casa e subito in tanti, forse in troppi, celebrano la liturgia funebre non tanto e non solo di una squadra, ma di un modello di calcio quel “tiki taka” basato su un possesso palla interminabile, spesso orizzontale, che stancava gli avversari prima di colpirli con un’accelerazione improvvisa.

Ma è davvero così? Certo, in parte lo è. Ma solo in parte. Perché se è vero che le avversarie della Spagna, come prima quelle del Barcellona e poi quelle del Bayern Monaco di Guardiola hanno trovato le contromisure, è soprattutto vero che quella della Spagna, prima ancora che di un modello di calcio, è la fisiologica sconfitta di una squadra.

Le furie rosse fino a due anni fa avevano vinto tutto, dopo un secolo o giù di lì passato a non vincere assolutamente niente: due europei e un mondiale dominato in 4 anni. Ci sta, fisiologicamente ci sta, che tutto questo finisca. Perché nel calcio tutti i cicli hanno una fine. Le prime avvisaglie si erano avute nella Confederation Cup, con la Spagna annientata in finale dal Brasile. Poi, però, erano venute le qualificazioni al Mondiale a tranquillizzare gli spagnoli: pochissimi gol subiti, partite vinte passeggiando. Era una illusione: a parte una Francia in ricostruzione, nel girone della Spagna c’erano Bielorussia, Giorgia e Finlandia. Troppo poco per mettere alla prova Casillas e soci. E quando sono arrivate le partite vere la Spagna si è sciolta come neve al sole.

Xavi in declino, Pique impresentabile, Diego Costa acciaccato e l’equivoco Casillas: un portiere che oggi è titolare part time nel Real Madrid e che per poco non regala la Coppa all’Atletico. Non ha avuto il coraggio di cambiare la Spagna. E ha pagato soprattutto questo. Non ha cambiato uomini e quindi, ovviamente, non ha potuto cambiare il sistema di gioco. E qui si arriva alla presunta fine del tiki taka.

Piano coi funerali. E’ vero, da questo inizio Mondiale arrivano indicazioni chiare: vanno bene le squadre che sanno mescolare muscoli e tecnica e che non si limitano a tenere il pallone ma lo usano per cercare di segnare nella porta avversaria. Vanno benissimo, soprattutto, le squadre che hanno davanti attaccanti veloci come Olanda, Cile e Messico. Oppure attaccanti classici utilizzati da numero nove e non da “falso nueve”: Balotelli, Mandzukic, Muller.

Ma da qui a dire che il “tiki taka” sia finito ce ne corre. Di certo c’è che oramai gli allenatori avversari hanno capito come attaccarlo. Hanno svelato il trucco profondo del tiki taka, che non è tanto il possesso di palla quanto il recupero della palla. Il Barcellona di Guardiola, espressione più sublime del modello, diventava tarantolato appena perdeva il pallone e se lo andava a riprendere subito, spesso sulla tre quarti avversaria per poi ricominciare a palleggiare. Ora tutti, o quasi, hanno capito che basta uscire da quella morsa per trovarsi davanti tanto spazio. E tutti o quasi il tiki taka hanno saccheggiato, prendendo l’idea di un possesso di palla “modificato”, più ragionato, meno ossessivo e orizzontale: lo fa persino l’Italia di Prandelli, lo ha fatto quasi a irridere, il Cile contro la Spagna. Lo fanno tante squadre di club in Europa.

Ai teorici del tiki taka ora la scelta: evolversi, cambiare qualcosa, o perdere. Le premesse non sono buonissime se è vero che Guardiola, per esempio, sembra incline a un certo integralismo. Il Bayern lascia andare Mandzukic perché il mister non sa cosa farci, gli serve uno che sappia palleggiare di più. Una roba che ricorda quanto succedeva negli anni ’70 sempre al Bayern. C’era un allenatore che non sopportava il suo centravanti perché era basso, goffo e poco tecnico. Quel centravanti si chiamava Gerd Muller che si scrive così e si legge gol. Nessuno in un Mondiale ha segnato quanto lui. E nessuno, neppure nel 2014, sembra in grado di batterlo.

Spagna eliminata: foto Ansa