Morte della piccola Elena, tutti assolvono papà Lucio. Perché?

Pubblicato il 23 Maggio 2011 - 10:06 OLTRE 6 MESI FA

TERAMO – La piccola Elena non c’è più: troppe, per una bimba di appena 22 mesi,  le cinque ore nel caldo rovente del pick up del padre, troppo esteso l’edema cerebrale, inutili gli sforzi dei medici.  La domanda, però, rimane: come è potuto succedere? Può davvero accadere che un padre, per quanto stressato, impegnato in mille faccende al punto da “non fermarsi mai”, si dimentichi la figlia? Per la mamma della piccola Elena sì: è una cosa che  può succedere, è tragico ma possibile. Una linea sposata anche da gran parte dei quotidiani italiani: sulle pagine di cronaca dominano i commenti di giornalisti e psicologi. Analisi tutte tese a trovare spiegazioni dell’inspiegabile.

La tragedia. Mercoledì 18 maggio, otto del mattino. Lucio Petrizzi, 45 anni, professore universitario di Teramo esce di casa per portare la piccola Elena all’asilo nido. La mette, come ogni giorno, nel seggiolone, nella parte posteriore della macchina dietro il posto di guida. Poi cinque ore di buio. Lucio si “dimentica” di avere la figlia: va al lavoro, all’università e lascia la bimba in auto, sotto il sole del parcheggio. C’è anche un’ulteriore e atroce beffa. Qualche ora dopo essere arrivato all’università, il papà di Elena si ricorda di aver scordato qualcosa in macchina: un documento che gli serve per lavoro. Scende al parcheggio e apre la macchina: il documento è davanti. Lucio racconta di aver sentito persino un gemito e di aver pensato a uno dei suoi cani in macchina. Poi l’incredibile: alle psicologhe il papà racconta di aver persino guardato in macchina, guardato senza vedere. Lucio, infatti, non si accorge di Elena sul seggiolone e torna per qualche ora all’università.

Attorno all’ora di pranzo il papà esce dal lavoro e si accorge di Elena. Subito la corsa in ospedale, il ricovero e la lotta disperata dei medici. La piccolina è in coma, da subito appare in condizioni gravi. Giovedì sembra accendersi un barlume di speranza: la piccola sta meglio, sembra aver addirittura impercettibilmente mosso le gambe. Purtroppo è un’illusione: tra venerdì e sabato Elena peggiora. La disperazione arriva sabato mattina quando i medici operano Elena alla testa per cercare di ridurre l’edema cerebrale. I medici escono dalla sala operatoria con un verdetto terribile: l’edema è troppo vasto, non c’è più nulla da fare. La piccola lotta per qualche altra ora, poi in serata il cervello si arrende.

I genitori, nel dolore, trovano la forza di fare la scelta più giusta: autorizzano la donazione degli organi. Con la sua assurda morte Elena almeno salva tre vite: il cuoricino finisce a Bergamo, a un bimbo di due anni. Il fegato alle Molinette salva un bimbo di nove mesi. Trapiantati anche i reni, al Bambin Gesù di Roma. Per la mamma e il papà di Elena il difficile arriva ora. Da giovedì sono costantemente seguiti da tre psicologhe che li hanno aiutati a rientrare in casa e in quella stanza piena di disegni e colori (a Elena piaceva soprattutto il giallo) dove viveva la loro piccola. Poi ci saranno i funerali e i mesi, di vuoto e dolore, che mancano fino alla fine della seconda gravidanza di mamma Chiara.

La compassione e i dubbi. Infierire sul dolore non si può. Alla base della tragedia c’è una distrazione atroce, una colpa non un dolo. I magistrati che indagano sulla morte di Elena lo hanno già stabilito con certezza: quella di papà Lucio è stata una dimenticanza, non un’intenzione di uccidere. Tuttavia è la natura della dimenticanza a lasciare perplessi, la lunghezza del blackout. Il papà è convinto di aver portato la piccola al nido, poi per cinque ore non ha un dubbio, non ci pensa neppure per un secondo. Cinque ore di lavoro filate senza che scatti un pensiero verso Elena, l’input che avrebbe potuto salvarla.

La prima a difendere il papà di Elena è la sua compagna, Chiara, 38 anni, incinta di un altro figlio. Dopo tre giorni di silenzio, quando capisce che non c’è più nulla da fare, parla in lacrime davanti alle telecamere: “Voglio gridare al mondo che Lucio è un papà esemplare, non ha colpe, quello che è successo a lui poteva succedere a chiunque perché non ci fermiamo mai e lui non si fermava mai perché si preoccupava di me, della gravidanza e della piccola Elena”. Un’assoluzione totale, quella che papà Lucio non potrà mai darsi. E sui giornali è un affannarsi a capire e spiegare. Tutti o quasi, in fondo assolvono, pensano che una dimenticanza del genere sia davvero possibile, figlia del nostri tempi. Emblematico è il Messaggero, con un commento firmato da Anna Oliviero Ferraris: “E’ del tutto inutile andare alla ricerca delle colpe: viviamo in un mondo dai ritmi frenetici e una dimenticanza di questo genere, se anche può sembrare incredibile, può avere una sua umana spiegazione”. La società e i mali della contemporaneità che spiegano ogni cosa, insomma.

“Vengono i brividi a pensare a quanto lunga e dolorosa potrà essere l’opera di ricostruzione psicologica di questo padre” scrive Francesco Alberti sul Corriere della Sera. Indubbiamente è una riflessione sensata. Resta però un dubbio fastidioso, quella di una sorta di “indulgenza di classe”. Se la dimenticanza, invece che di un professore universitario fosse stata quella di un disoccupato, di un operaio, o di un extracomunitario, l’atteggiamento della stampa sarebbe stato lo stesso? L’errore sarebbe stato “così umano” e la “ricostruzione psicologica del papà” così pressante? Probabilmente no. Avremmo letto pagine e pagine sul disagio e ci sarebbero stati commenti che invocavano il carcere a vita. La “normalità” di Lucio e Chiara, invece, spinge a una lettura più cauta e misurata, persino indulgente. Una “lucidità” che, putroppo, non è sempre tale.