Misurare la Tv nel XXI secolo, da Costanzo a Squid Game, il senso di Auditel per l’audience ha ancora senso?

di Antonello Piroso *
Pubblicato il 8 Dicembre 2021 - 12:32 OLTRE 6 MESI FA
Misurare la Tv nel XXI secolo, da Costanzo a Squid Game, il senso di Auditel per l'audience ha ancora senso?

Misurare la Tv nel XXI secolo, da Costanzo a Squid Game, il senso di Auditel per l’audience ha ancora senso?

Tv e misurazone dell’audience. Auditel era nato da poco quando il direttore di Panorama Claudio Rinaldi decise, nella seconda metà degli anni 80, di inaugurare una sezione del settimanale dal titolo “Mass media”.

Come capirne di più? Ricorda Antonello Piroso in questo articolo pubblicato sulla Verità. Mi fu fatto il nome del siracusano Francesco Siliato, studioso di ascolti tv. Aveva appena fondato con Clelia Pallotta, collega nonché consorte, lo Studio Frasi.

Più di trent’anni dopo, l’universo tv è mutato completamente. L’offerta di contenuti è esplosa.

Non arrivando più solo dai cosiddetti broadcaster -Rai e Mediaset, per capirci, la “televisione”-. Ma da un bouquet sempre più nutrito di fonti (canali digitali, satellite, internet con le “app” che operano in streaming), che hanno trasformato l’apparecchio, il “televisore”, in smart tv.

Siliato, come sta la tv?

La televisione sta benissimo, ne va ridefinito il perimetro. Perché oggi abbiamo immagini in movimento su schermi domestici e in mobilità. E quindi: le dirette Instagram, Facebook, Twitch, YouTube sono “televisione”? E quando Youtube mette in linea programmi televisivi, film, serie, cos’è?

Come distinguerla da Rai Play, Infinity o anche Prime Video e Netflix? E’ evidente che il concetto di broadcaster vada rivisitato e esteso, non dimenticando i diversi modelli di business legati alla diffusione di contenuti audiovideo.

E le tv generaliste? 

Rimangono dominanti, vedono erodere i propri bacini di utenza ma lentamente. Considerando che sono ancora seguite da oltre il 60% di chi guarda la tv. E che le reti non sono più solo le famose “sette sorelle” (le 3 Rai, le 3 Mediaset e La7) ma centinaia. Insomma: se la cavano bene, sono resilienti.

Nei loro palinsesti quali sono i programmi più visti?

Spesso i tg.

I telegiornali?

Come Studio Frasi abbiamo appena pubblicato una ricerca relativa ad ascolti e share delle edizioni principali dei tg, quelle serali. Mettendo a confronto il periodo tra il 26 settembre e il 16 novembre degli ultimi tre anni. Non di rado Tg1 e Tg5 risultano i prodotti più visti di Rai 1 e Canale 5 nell’intera giornata.

Ma in termini di telespettatori o in quelli di share, su cui ormai si concentrano giornali, siti, blog?

La misurazione delle audience esiste perché esiste il mercato pubblicitario (altrimenti basterebbe l’antico indice di gradimento). Alla base del mercato pubblicitario c’è il costo per contatto, il rapporto tra investimento e platea numerica. Si “comprano” e si “vendono” le teste, non le percentuali. E lo share è una percentuale, che tra l’altro ha una variabilità legata all’ora di emissione e alla durata. Il che spiega perché certi programmi tirino in lungo oltre ogni limite di umana sopportazione per incrementare lo share. Ma si tratta di mezzucci buoni per le classifiche della stampa e dei social, non certo per il mercato. 

Per i Tg di che numeri stiamo parlando?

Quest’anno, nell’intervallo citato (26/9-16/11), il Tg1 ha avuto una media di 5.048.000 telespettatori, 23,4% di share, il Tg5 4.177.000, 19,11%. Rispetto allo stesso periodo del 2020 perdono entrambi, come tutti gli altri Tg, perché possiamo supporre che l’anno scorso con la seconda ondata pandemica la gente si sintonizzasse di più sui notiziari per avere aggiornamenti.

Il raffronto più omogeneo è tra il 2021 e il 2019. Il Tg1 ha guadagnato mediamente 141.000 telespettatori, il Tg5 ne ha persi 198.000, meno comunque di Tg2 (-209.000) e di Studio Aperto delle 18.30 (-212.000), che è quello che registra la performance peggiore.

E la migliore?

Quella della TgR, la testata giornalistica regionale della Rai, che nell’edizione delle 19.30 arriva a una media di 2.800.000 telespettatori, con una crescita sul 2019 di 300.000 teste.

La Tgr? Proprio quella per cui sono ai ferri corti l’amministratore delegato Carlo Fuortes e l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti interni.

Che gli rimprovera la contraddittorietà. Da un lato dice di non voler seguire la bussola dello share, dall’altra taglia l’edizione notturna dei Tgr, colpevole di “un crollo di ascolti in termini di share”?

Per principio, non mi sono mai occupato di nomi, nomine, polemiche politico-partitico-sindacali e, nel caso della tv pubblica, della pratica della lottizzazione, comunque poco commendevole. Sono un addetto ai lavori che mette sul vetrino del microscopio gli ascolti, e quelli leggo e interpreto.

Come mai i tg mantengono questa presa sul pubblico?

C’entra anche il fattore demografico. In Italia la vita media continua -comunque e per fortuna- ad allungarsi, collocando il nostro paese tra i più longevi d’Europa. Così, StudioAperto è il tg con il target relativamente più “giovane” (età media 53 anni, 54 quella di chi si sintonizza sul Tg5) per arrivare al TgLa7 (62 anni), quindi al Tg1 (64), infine al top dei 65 del Tg3.

Da dove nasce la sua passione per le dinamiche tv?

Dopo la laurea in Scienze politiche nel 1971, partecipai alla costituzione di una cooperativa a Milano, Index, che considerava l’informazione come un sistema da approcciare nel suo insieme. Cominciammo pertanto ad occuparci di contenuti e dell’economia dei media. Abbiamo scritto dal primo all’ultimo numero le pagine finali della rivista Alfabeta. Titolate “Giornale dei giornali” e “Indice della comunicazione” che curavo personalmente. Passare dallo studio dell’audience dei quotidiani a quella della tv è stata un’evoluzione conseguente.

Dalla tv in bianco e nero, vista con gli amici al bar (con un solo canale Rai, poi due), a quella a colori, quindi l’avvento delle tv private e delle reti allora Finivest.

Con il terzo millennio, l’accelerazione: tra il 2000 e il 2010 lo sbarco in Italia di Sky, tra il 2010 e il 2020 la nascita delle diverse piattaforme in streaming, menu on demand e palinsesti personalizzati. Dalla televisione-televisore, focolare attorno a cui si riuniva la tv, alla televisione sullo smartphone…

Si, è cambiato tutto, ma non l’offerta, siamo sempre lì a guardare film, serie, documentari. Perché è questo che ci viene propinato. Tutte offerte smorte, propongono il già finito, il registrato, il passato. Le Ott, le Over the top, le imprese che diffondono contenuti via Internet guardando avanti, l’hanno capito da un pezzo.

Amazon compra Twitch con videogiochi e dirette di ogni sorta, Netflix a sua volta propone giochi interattivi, Prime video compra diritti per le dirette d’eccellenza, quelle sportive. La battaglia finale passerà da lì, dalle dirette, e quindi anche dall’informazione, con gli aggiornamenti in tempo reale attraverso le breaking news. 

E i talk show?

Per come sono fatti (stessi conduttori, ospiti, politici, opinionisti, l’identica compagnia di giro) non hanno più molto appeal, e infatti accusano un’evidente stanchezza, dopo di che -costando poco- tutte le reti generaliste, con la sola eccezione di Italia1, ne programmano ciascuna anche più di uno.

Oggi ha ancora senso una rubrica di critica tv?

Se coniuga la radiografia di investimenti e ascolti, sì. Ossia quando è in grado di svelare i meccanismi e le scelte di palinsesto, la ricerca dei target e -nel caso del servizio pubblico- il grado di coesione sociale di una rete, un programma.

Se invece sono solo una palestra di “mi piace” /“non mi piace”, anche se motivati con belle parole e buone citazioni, dietro cui però si intuiscono simpatie o antipatie “a prescindere”, allora no.

L’Auditel è ancora uno strumento valido?

Assolutamente sì. L’Auditel “tradizionale” funziona sempre con un panel di famiglie e un meter collegato al televisore dal quale rileva l’audio (audiomatching) che collega all’emissione delle reti rilevate.

Poi c’è un Auditel digitale, che rileva i movimenti sulle app dei broadcaster che lo richiedono (Rai, Mediaset, Sky, Discovery, La7) e fornisce dati sul numero di click, sui minuti di connessione ed altro.

Il prossimo step, forse già in primavera, sarà la rilevazione delle connessioni. Auditel ha saputo progredire con le novità tecnologiche e i mutamenti radicali che sono avvenuti nell’offerta di televisione.Funziona bene, e a breve fornirà la mitica total audience con metriche condivise e attendibili più di quelle che circolano oggi.

Del resto, il caso Dazn con l’autodeterminazione dei propri ascolti, su cui c’è ancora polemica, ha finito con il certificare che senza Auditel non si va seriamente da nessuna parte.

Amazon Prime, Netflix, Disney+ etc : i loro ascolti sono rilevati? 

Squid game è stata definita la serie più vista di sempre su Netflix, è stato calcolato anche il ritorno economico (il che ha spinto a mettere in cantiere la seconda serie), a fronte di meno di 30 milioni di dollari investiti, il traffico avrebbe generato incassi superiori ai 900 milioni…

Possono dire quello che gli fa più comodo. Sono tutte autodichiarazioni, “dati di prima parte” come si dice in gergo. Si potrebbe persino fantasticare che Squid game sia diventato popolare dopo le campagne di stampa su giornali e social, anche ricorrendo a influencer utili alla causa, e che fino a quel momento fosse un flop.

Sarebbe interessante conoscere il numero di account che l’hanno seguito prima della grancassa pubblicitaria, e cosa è successo dopo. Senza Auditel, e comunque senza un credibile certificatore terzo, tutto è aleatorio.

Detto questo, è significativo che Netflix abbia deciso di diffondere i dati, in ore di visione, della propria offerta. Così a proposito di Squid game scopriamo che nel giro di due settimane (13-19 e 20-26/09) è passato da 63.000.000 a 449.000.000 di ore di visione: a global word of mouth, un istantaneo e repentino passaparola mondiale? Mah.
 
* da La Verità