Genova sta morendo, ecco perché: la testimonianza di un commerciante

di Redazione Blitz
Pubblicato il 10 Agosto 2015 - 09:32 OLTRE 6 MESI FA
Genova sta morendo, ecco perché: la testimonianza di un commerciante

©Lapresse – nella foto: il porto di Genova

GENOVA – Genova sta morendo: il perché lo spiega un commerciante del centro storico, Davide Cedolin, in una lunga e appassionata lettera al Secolo XIX. Cedolin ha un negozio in Vico Indoratori, in quello che dovrebbe essere il cuore della città e invece è il cuore marcio. Osservando un uomo che defeca indisturbato a pochi passi dal suo negozio, Cedolin allarga il campo passando in rassegna le cause della lenta morte di Genova.

La sua non è la solita lamentela del cittadino che pensa che i problemi si risolvono con più spazzini e più polizia nelle strade. Anzi, fra i sintomi del profondo malessere di cui soffre la Superba Cedolin mette anche quei residenti che chiamano i vigili perché alle otto di sera sentono della musica in strada, musica regolarmente autorizzata e musica che è uno degli ultimi spasmi di vita di una città agonizzante.

Sono da poco passate le nove del mattino e sto dirigendomi verso il negozio che gestisco insieme alla mia compagna in Vico Indoratori. E’ una bellissima giornata primaverile, si respira un’aria frizzante si dice in giro. Ed inizio a farmi contagiare anch’io da questo incredibile ottimismo mattutino. C’è un vicolo cortissimo di fronte al nostro negozio, un vicolo che potrebbe svolgere un ottimo ruolo di “passante diagonale” tra San Lorenzo e Orefici, ma che nei fatti è un vicolo che forse andrebbe chiuso. Non è il peggior vicolo della città, è solamente uno dei tanti punti di Genova che diventa veicolo di quello che si chiama degrado.

Scorgo dalla vetrina un uomo, accovacciato tra due motorini. Avendo clienti in negozio non esco a controllare cosa stia succedendo, attendo di servire le due gentili signore che hanno individuato una bellissima lampada anni ‘60 e stanno discutendo dove metterla. Passano i minuti e vedo che l’uomo all’esterno è sempre lì, intento a combinare qualcosa in quella posizione decisamente strana. Le signore escono, e accompagnandole all’uscita, butto l’occhio verso l’uomo. Sta defecando. E’ una persona di circa quaranta/cinquant’anni, non sembra a disagio, e con una certa perizia noto che sta indagando dentro il sacchetto di plastica dentro il quale ha scaricato.

Il sacchetto, intuisco rapidamente, non è stato usato per non sporcare, ma bensì per poter metterci mano dentro. L’uomo sta infatti estraendo dei piccoli pacchettini dalle sue feci. Ovuli, probabilmente di eroina o oppio. Per chi “mastica” il centro storico, scene del genere sono quasi all’ordine del giorno. “Per favore, ho il negozio aperto, puoi andare altrove a fare quello che stai facendo?” “Tu che cazzo vuoi, hai un negozio”. “Proprio per questo, i clienti se vedono una roba del genere, li perdo”. “E cosa devo fare io per vivere, morire?”

Questo è quello che succede, in un giorno di marzo come tanti, a un paio di centinaia di metri dalla principale cattedrale cittadina. Non credo che questo singolo episodio possa diventare lo specchietto per allodole di una città che ha in mezzo alle sue bellezze una montagna di problemi. Ma è lampante vedere come un silenzioso corriere della droga non desti poi troppo scalpore nel defecare in pubblico in pieno giorno, e come non lo desti la fila di saracinesche di negozi chiuse intorno a lui. Non destano neppure scalpore (a parte una formale indignazione) le richieste di affitto in centro, che vanno totalmente contro le dinamiche economiche e logiche della città in primis e del Paese tutto in seconda battuta.

Noi in negozio siamo praticamente soli. Abbiamo solo due ristoranti vicini, con persone dentro che si spaccano la schiena per oltre 10 ore al giorno. Con intervalli di varie saracinesche chiuse a dividerci. E basta. Siamo soli in mezzo ai morti. In mezzo ai palazzi morti, espropriati dal Comune a persone che li stavano degradando, per poterli poi degradare istituzionalmente. Siamo da soli nel chiedere all’Amiu di passare l’idrante nel nostro pezzo di cimitero, perchè se non lo si chiede, essendo il nostro un angolo molto “remoto” del cimitero, nessuno viene a pulirne la pavimentazione. Ma al cimitero, quello vero, di solito almeno i fiori ai morti li si porta. Nessuno viene a pulire il tombino davanti al negozio, lo facciamo noi, a fine settembre, prima delle ormai puntualissime alluvioni.

Siamo in mezzo a persone morte, persone morte che camminano, che cercano di mantenere una dignità nonostante tutto, che cercano di parlare di “quartiere” ma che fanno davvero tanta fatica. E morti lo siamo anche noi. Perchè è ineluttabile che se marciscono le radici, prima o poi l’albero cade. Noi cittadini siamo le fronde di un albero che ha una scadenza marchiata nella sua essenza, nel suo libro. Io e la mia compagna che siamo teoricamente in una condizione “privilegiata”, con un’abitazione ed un “lavoro” siamo morti. Ed è quello che sta succedendo a noi tutti, alla città intera, e a cui nessuno presta attenzione. E’ più facile puntare il dito contro chi fa musica dal vivo alle otto di sera con permessi comunali piuttosto che digerire tutto questo rumore pensando che se c’è aggregazione culturale c’è vita. E se c’è qualcuno che pensa che certa musica non sia cultura, citerei Miles Davis, in una delle sue ultime interviste, che direi nessuno possa non definire patrimonio culturale dell’umanità: “La vera musica è il silenzio. Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio. Chi non capisce questo processo, non capirà mai la musica come arte e non ne apprezzerà mai le evoluzioni stilistiche, perché non solo non potrà decifrare il silenzio, ma neppure riuscirà a comprenderlo come concetto”.

Genova è immobile da oltre dieci anni, smettiamola di dare colpe e proviamo a rimboccarci le maniche. O altrimenti andiamo a farlo altrove se qui non ci sono le possibilità. Ma la critica gratuita, immotivata, il mugugno latente che è sempre li pronto a fare capolino, è esattamente quello che sta disidratando la nostra comunità. L’individualismo imperante, conservativo di status quo per altro conquistati decenni fa, è quello che sta creando delle bolle di ossigeno nel bel mezzo di un’apnea generale. Il che, non fa che mettere a rischio ancor più la propria condizione di vantaggio oltre a non legittimare spazi fisici ed economici per il resto degli abitanti. Genova muore, ora dopo ora. I problemi grandi nascono dalle piccole pietroline che si nascondono nelle scarpe e che giorno dopo giorno si accumulano. Raramente, a meno di fenomeni extra ordinari si autogenerano situazioni rapidamente, tanto meno a Genova, nel bene e nel male. A Genova, più che in altre realtà italiane e sicuramente molto più che certe altre realtà straniere, svetta il baluardo dell’immobilismo e della staticità.

Aridità culturale e aridità economica, aridità sociale e frammentazione mascherate da difficoltà nel sentirsi grande. Genova è una perenne adolescente con la mentalità da vecchia signora stanca, annoiata ed infelice. Genova è stata baluardo delle ragioni di parità sociale, di lotte, di affermazione dei diritti, di integrazione e di benessere per parecchio tempo, piena di eventi culturali notevoli, operazioni di solidarietà enormi; addirittura anch’io ho ricordo dell’inizio degli anni 2000, dopo il famoso G8, ho il ricordo di quante persone volevano stare bene in mezzo agli altri, quante persone si impegnavano a trovare una via per se stessi che potesse diventare un piccolo meccanismo di un meccanismo più grande. Mi chiedo cosa abbiamo oggi.

Mi chiedo davvero cosa stiamo facendo di così importante per non renderci conto che se le cose vanno male è anche e soprattutto responsabilità nostra. Le istituzioni sono istituzioni, se noi ci accontentiamo non possiamo svegliarci solo quando un altro km di strada diventa area blu, o come quando durante l’alluvione si pensa di essere legittimati ad inveìre e a recriminare. Cosa stiamo facendo noi per Genova? Siamo davvero così amorevoli verso la città, la comunità che la abita, verso l’ambiente e verso chi a Genova viene magari ipotizzando un trasferimento?

La staticità porta blocchi, porta incapacità della visione di insieme, porta paura verso le cose e le persone diverse, e questa paura si tramuta in odio, si tramuta nella presunzione illegittima di avere diritti che altri non dovrebbero avere, come avere il diritto di pestare a morte un uomo perché sembra gay, come avere il diritto di chiamare i vigili perché alle otto di una sera d’estate c’è chi sta facendo un concerto in un parco, come avere il diritto di avere tutto e gratis, come pensare che solo perchè c’è “libertà di espressione” ci si possa sentire in diritto di giudicare moralmente e tecnicamente una cosa senza conoscerla.

I diritti vanno sempre rapportati alla propria condotta a livello morale ed etico, non basta essere nel legale per sentirsi buoni cittadini. E noi cittadini genovesi ce ne stiamo fregando, preferendo una lenta e sfiancante morte.