Libia, il petrolio schizza a quota 107 dollari. Crolla Piazza Affari

ROMA – La crisi libica infiamma i mercati petroliferi. L’oro nero ha registrato oggi un nuovo record, superando quota 105 dollari raggiunta ieri per la prima volta dal settembre 2008: oggi i contratti per le consegne ad aprile hanno sfiorato i 107 dollari (106,95).

Negli scambi in Asia i contratti per il greggio a scadenza marzo hanno guadagnato 6,45 dollari a 92,65 dollari al barile.

Il prezzo del petrolio del paniere Opec (12 qualità di greggio proveniente dai Paesi del cartello) ha infranto la soglia dei 100 dollari al barile, a 100,59 dollari, per la prima volta da settembre 2008, spinto dalla crisi libica.

Il paniere comprende varie qualità di petrolio: Saharan Blend (Algeria), Girassol (Angola), Oriente (Ecuador), Iran Heavy (Iran), Basra Light (Iraq), Kuwait Export (Kuwait), Es Sider (Libia), Bonny Light (Nigeria), Qatar Marine (Qatar), Arab Light (Arabia Saudita), Murban (Emirati Arabi Uniti) e Merey (Venezuela).

Anche il petrolio dell’Oman, riferimenti per l’Asia, è salito oltre i 100 dollari, con i futures sul contratto di aprile a 104,95 dollari al barile.

Le ripercussioni a Piazza Affari. La rivolta in Libia sta avendo ripercussioni anche sui mercati finanziari, in particolare sui titoli maggiormente esposti con il paese africano: ieri a Piazza Affari Eni ha perso il 5,12 per cento, Unicredit il 5,75 per cento, Impregilo il 6,12, Finmeccanica il 2,69. Persino la Juventus, partecipata da capitali libici, benché non direttamente coinvolta nelle vicende dei mercati ha finito per pagare il prezzo della crisi libica con una perdita del 3,34 per cento.

La situazione energetica libica. La Libia è un paese centrale dal punto di vista energetico, sia per il petrolio che per il gas. Si tratta infatti del quarto produttore africano di greggio, dietro Nigeria, Algeria e Angola, con una produzione di 1,8 milioni di barili al giorno, e sta acquisendo posizioni anche sul metano, con riserve accertate stimate dall’Opec in 1.540 miliardi di metri cubi ed esportazioni per oltre 10 miliardi di metri cubi l’anno.

In caso di arresto o riduzione della produzione, quindi, il mercato mondiale, in particolare quello europeo, si troverebbe privo di importanti quantità di idrocarburi. L’andamento dei prezzi suona già come un campanello d’allarme.

”Al momento – ha spiegato il presidente dell’Unione petrolifera, Pasquale De Vita – non ci sono riflessi di nessun genere, ma speriamo che le tensioni durino il meno possibile, perche’ altrimenti alla lunga potrebbero esserci delle ripercussioni sui prezzi”.

Anche Gazprom, che da pochi giorni ha firmato un accordo con l’Eni per acquisire una quota del giacimento libico Elephant, non nasconde le proprie preoccupazioni: ”Come stiamo vedendo, il prezzo di mercato del petrolio è un indicatore oggettivo di quello di cui saremo testimoni in questa regione”, ha detto l’ad Alexei Miller, secondo cui ”la questione della affidabilità delle forniture alla Ue deve essere analizzata molto più criticamente di quanto è stato fatto sinora”. Senza contare, come osservano diversi analisti, i rischi connessi con il possibile ”contagio” di altri Paesi dell’area, Iran in testa.

I Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente contano infatti per il 36% della produzione petrolifera mondiale e conservano il 61% delle riserve. Da Tripoli arrivano intanto dichiarazioni rassicuranti: il presidente della National Oil Corporation, Shokri Ghanem, ha affermato di non avere notizia di una flessione della produzione, anche se Al Jazeera ha parlato di scioperi del personale che avrebbero portato al fermo dell’impianto di Nafoora.

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