Pensioni, contributo di solidarietà “incostituzionale”? Tribunale di Genova lo rinvia alla Corte

di Francesco M. de Bonis
Pubblicato il 10 Agosto 2016 - 13:10 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni, contributo di solidarietà "incostituzionale"? Tribunale di Genova lo rinvia alla Corte

Pensioni, contributo di solidarietà “incostituzionale”? Tribunale di Genova lo rinvia alla Corte

GENOVA – Contributo di solidarietà: il giudice della sezione Lavoro del Tribunale di Genova Marcello Basilico rinvia alla Corte costituzionale le leggi Letta, Monti/Fornero e Renzi/Poletti “perché realizzano un sistema di blocco permanente della perequazione degli assegni sopra tre volte il minimo”.

L’ordinanza, che accoglie l’interpretazione dell’avvocato Andrea Rossi Tortarolo, è molto importante perché è successiva alla sentenza 173/2016 della Consulta (depositata il 13 luglio scorso) che aveva dichiarato la legittimità del contributo di solidarietà e anche della norma sulla rivalutazione decrescente degli assegni. Scarica l’ordinanza completa in pdf.

Il contributo di Francesco M. de Bonis pubblicato sul sito di Franco Abruzzo:

Non c’è pace sulla legge 147/2013, che ha ripristinato il contributo di solidarietà sulle pensioni superiori ai 91.250 euro, contributo cancellato dalla Consulta in precedenza con la sentenza 116/2013. E non c’è pace anche sulla legge Renzi/Poletti (dl 65/2015) che sostanzialmente ha limitato al lumicino la sentenza 70/2015 della Corte costituzionale che aveva ripristinato la perequazione colpita duramente da una normativa Monti/Fornero del 2011.

L’ordinanza, firmata dal giudice della sezione Lavoro del Tribunale di Genova, Marcello Basilico, solleva oggi una nuova questione di costituzionalità. Ed è molto importante perché è successiva alla sentenza 173/2016 della Corte Costituzionale del 13 luglio scorso che aveva dichiarato la legittimità del prelievo (comma 483 dell’art. 1 della legge 147/2013 di stabilità per il 2014, Governo Letta).

La Corte in questa occasione ha ritenuto legittima anche la norma sulla rivalutazione decrescente degli assegni. L’ordinanza genovese, recependo l’interpretazione e la ricostruzione dell’avvocato Andrea Rossi Tortarolo (difensore di tre pensionati dell’azienda trasporti locali), considera anche le norme “Letta” (tra le altre oggetto del suo esame) affette da incostituzionalità perché realizzano in concreto, in collegamento con l’intervento Monti/Fornero (Art. 24, c. 25°, del dl n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1°, della legge n. 214/2011) e con l’intervento Renzi/Poletti (dl 65/2015 convertito in legge 109/2015), un sistema di blocco permanente della perequazione delle pensioni sopra tre volte il minimo.

Così com’è stato ribadito dalla sentenza 70/2015 della Consulta, la perequazione automatica dei trattamenti di pensione – si legge nell’ordinanza – è uno strumento tecnico diretto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., connesso al principio di sufficienza della retribuzione, di cui all’art. 36, primo comma, Cost., dovendosi intendere il trattamento di quiescenza come una retribuzione differita (su cui già Corte cost., 208/2014, 116/2013 nonché, con specifico riferimento alla dinamica retribuzione-pensione, 226/1993).

Perciò “la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario”. Su tale premessa le scelte legislative devono muoversi secondo finalità ragionevoli, per perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale (ex art. 3, secondo comma, Cost.) onde evitare che esse si risolvano in una disparità di trattamento per alcune categorie di pensionati.

E’ inevitabile osservare – si legge nell’ordinanza – come anche nel nuovo testo dell’art. 24 d.l. 201/2011, così come sostituito col d.l. 65/2015, l’intervento sulla rivalutazione sia motivato dal “rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica” e dalla “salvaguardia della solidarietà intergenerazionale”, cioè da enunciazioni generiche e relative a finalità già insite di per sé (ex artt. 81 e 38 Cost., rispettivamente) in ogni iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica. Tanto meno esso viene giustificato nella legge 109/2015 di conversione.

Nella relazione illustrativa al disegno di legge le ragioni vengono espresse ponendo come unico riferimento i maggiori oneri finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il 2012 ed il 2016 per effetto della riattivazione del meccanismo perequativo dell’art. 69 l. 388/2000 conseguente alla sentenza 70/2015 della Corte costituzionale. Manca qualsiasi accenno al perché s’intenda comunque riequilibrare il disavanzo con l’intervento sul sistema pensionistico ed al perché esso venga modulato con le specificità dianzi esposte.

Oltre a difettare delle precise ragioni solidaristiche e, più in generale, di ragioni tecniche puntuali che la giustifichino, il nuovo disposto dell’art. 24, comma 25, ha – si legge nell’ordinanza – effetti distribuiti su più anni e destinati a divenire permanenti, poiché non v’é previsione di recupero futuro del mancato incremento rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici.

Con un’unica disposizione si è dunque realizzata di fatto una reiterazione annuale della paralisi del meccanismo perequativo, in contrasto col monito più volte ripetuto dalla Corte costituzionale. Nel caso in esame – scrive il giudice Basilico – il legislatore del 2015 è intervenuto disponendo anche per il passato e neutralizzando gli effetti della sentenza 70/2015 con una tecnica in parte già censurata dalla stessa decisione.

Si è così impedito che la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, d.l. 201/211 producesse le conseguenze previste dall’art. 136 Cost., cioè la cessazione di efficacia della norma dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia.

Il risultato elusivo della sentenza 70/2015 è massimamente evidente per le pensioni di valore complessivo superiore a sei volte il trattamento minimo. Si pone di conseguenza, come non manifestamente infondata, la questione di legittimità della disciplina esaminata anche alla stregua dell’art. 136 della Costituzione. E degli articoli 3, 36 e 38 della Carta fondamentale della Repubblica.