Shale gas: come l’indipendenza energetica Usa (nel 2035) cambierà il mondo

di Marzia Boscarino
Pubblicato il 12 Aprile 2014 - 06:00 OLTRE 6 MESI FA
Shale gas: come l'indipendenza energetica Usa (nel 2035) cambierà il mondo

Shale gas: come l’indipendenza energetica Usa (nel 2035) cambierà il mondo

ROMA – Entro il 2035 gli Stati Uniti potrebbero raggiungere l’indipendenza energetica, grazie allo shale gas. Obiettivo tanto agognato (da Nixon ieri, da Obama oggi), che porterà conseguenze economiche e ambientali a livello globale, dato il peso geopolitico degli Usa. Conseguenze positive e negative: dipende dai Paesi e dal tempo. Positive, nel breve e nel medio periodo, per l’America. Negative, nel breve e nel medio periodo, per l’Europa e le nazioni produttrici di petrolio. E forse negative, nel lungo periodo, per gli stessi Stati Uniti. Vediamo perché.

Gli Usa sono, ad oggi, il principale importatore di petrolio al mondo e i suoi principali fornitori d’energia sono: Nigeria, Algeria, Kuwait, Iraq, Arabia Saudita e Canada.

Se il principale importatore non ha più bisogno di importare la prima conseguenza potrebbe essere il disimpegno americano dagli scenari di guerra del Medio Oriente. Che motivo avrebbero gli Stati Uniti di restare coi propri militari, per esempio, in Iraq se l’Iraq non serve più, dal momento che gli Usa l’energia se la producono utilizzando fonti energetiche proprie e alternative (gas e shale gas ovvero scisti bituminosi)?

È pur vero che non è solo la ricerca di petrolio a determinare le scelte di politica estera negli Stati Uniti.

Ma è un fatto che, proprio a partire dal 2008, e cioè parallelamente a una progressiva intensificazione dell’uso del proprio gas e dei propri scisti bituminosi, gli Stati Uniti hanno mutato anche la loro politica estera, iniziando a ritirare i propri soldati dall’Iraq e Afghanistan.

E, altra coincidenza, è proprio a partire dal 2008 che si registra, sempre negli Stati Uniti, un sensibile calo dell’emissione totale di CO2. Dovuta a gas e scisti bituminosi, che sono molto meno inquinanti di petrolio e carbone. Anche se è tutto da verificare l’impatto del “fracking”, dell’estrazione di shale gas, sulle falde acquifere del territorio americano.

Anche la Cina, per esempio, sta andando verso la graduale sostituzione del carbone con il meno inquinante gas, ma in più gli Usa hanno gli scisti bituminosi, cioè sedimenti di colore nero ricchi di bitume e considerati dall’Oil & Gas Journal (OGI), già dal 2002, come riserve petrolifere a tutti gli effetti.

È vero quindi che gli Usa si stanno rendendo più indipendenti e meno inquinanti, ma l’altra faccia della medaglia è che il gas e gli scisti bituminosi sono fonti di energia non rinnovabili e limitate, non in grado di garantire anche nel lungo termine l’indipendenza energetica cui gli Usa aspirano.

Inoltre, gli Usa, sostituendo petrolio e carbone con gas e scisti bituminosi fanno una scelta di politica energetica mirata ad escludere l’utilizzo di fonti di energia quali l’eolico e il solare, che hanno il vantaggio di essere fonti rinnovabili e molto meno inquinanti anche degli stessi scisti.

Insomma, gli effetti positivi dell’indipendenza energetica, dalla maggiore crescita economica (le importazioni di petrolio rappresentano i 2/3 del deficit, negli Usa), ai minori costi anche in politica estera al minore inquinamento globale, si vedranno, negli Usa come altrove, nel breve – medio periodo, ma forse non nel lungo periodo.

Il trend positivo indipendenza energetica-crescita economica e produttiva-minore inquinamento globale potrebbe, infatti, arrestarsi con l’esaurimento (anche se ci vorranno decenni) di quelle fonti di gas estratto con tecnica “convenzionale” e non, sulle quali gli Usa stanno tanto investendo.

D’altra parte, non si possono ignorare le imminenti conseguenze negative del raggiungimento dell’indipendenza economica degli Usa su quelli che sono i maggiori paesi esportatori di petrolio verso gli Usa stessi, dalla Nigeria al Canada passando per i Paesi del medio Oriente.

Ed anche le economie dei maggiori Paesi europei stanno già da adesso risentendo negativamente del brusco calo del prezzo del petrolio, conseguente al fatto che gli Stati Uniti, non dovendo importare petrolio e carbone, sostengono costi di produzione d’energia minori e dunque hanno prezzi molto più competitivi delle industrie europee.

Non dimentichiamo che l’Europa dipende per i 2/3 dal gas della Russia e, quindi, dovendo importare energia, le industrie chimiche europee sono meno competitive di quelle americane, perché costrette a sostenere costi di produzione molto maggiori.