Biografia di un italiano analfabeta, grande scrittore: Terra matta di Vincenzo Rabito, dall’archivio della memoria

di Emiliano Chirchietti
Pubblicato il 27 Febbraio 2022 - 17:39 OLTRE 6 MESI FA
Biografia di un italiano analfabeta, grande scrittore: Terra matta di Vincenzo Rabito, dall'archivio della memoria

Biografia di un italiano analfabeta, grande scrittore: Terra matta di Vincenzo Rabito, dall’archivio della memoria

Per raccontare al meglio questo libro, “Terra matta” di Vincenzo Rabito, occorre far iniziare la recensione da un’altra parte.

In un piccolo comune nella provincia di Arezzo, esattamente a Pieve Santo Stefano.

Abitato da poco più di 3000 persone, Pieve Santo Stefano è un comune al quale fu cancellata la memoria. Lo fecero le truppe tedesche, in ritirata nell’agosto del 1944: minarono tutto e lo rasero al suolo.  

Decorata al valor militare per la guerra di liberazione, la città di Pieve Santo Stefano negli anni venne lentamente ricostruita ex novo, e nel 1984, il giornalista scrittore Saverio Tonito, vi fondò l’Archivio Diaristico Nazionale.

Oggi, quarant’anni dopo, l’Archivio è diventato a tutti gli effetti la casa della memoria.

Nel sito internet dell’Archivio si legge che sono conservati circa 9.000 “scritti di gente comune in cui si riflette, in varie forme, la vita di tutti e la storia d’Italia. Sono diari, epistolari, memorie autobiografiche”. 

Ma come funziona l’Archivio? Semplice. “Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni” – si legge sempre nel sito – “le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future”. 

Per incentivare l’afflusso di materiale fu istituito un premio annuale,  il Premio Pieve, giunto nel 2021 alla sua trentasettesima edizione. Il vincitore riceve un premio in denaro e la pubblicazione. “Terra matta” di Vincenzo Rabito è uno di questi, primo classificato nel 2000.

Vincenzo Rabito nasce a Chiaromonte Gulfi, provincia di Ragusa, nel 1899. La quarta di copertina del libro ci dice che  “è stato bracciante da bambino, è partito diciottenne per il Piave, ha fatto la guerra d’Africa e la Seconda guerra mondiale. E’ stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato e ha allevato tre figli. E’ morto nel 1981”.

Nel 1968 (quando aveva 67 anni) decide di scrivere la sua biografia, su una vecchia Olivetti. Impiegherà per farlo ben sette anni, fino al 1975. 

“Dopo la morte dell’autore, l’opera è rimasta in un cassetto fino al 1999, quando il figlio, Giovanni Rabito, l’ha inviata all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, presso cui è conservata e consultabile” (nota dell’editore pagina V).

Bene, fino a questo punto tutto abbastanza normale. Ma basta aggiungere che Vincenzo Rabito era un semianalfabeta per dare a questa storia i tratti dell’unicità. 

Il dattiloscritto originale è composto da 1027 pagine a interlinea zero, senza un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale; a dividere ogni parola dalla successiva non c’è lo spazio ma un punto e virgola; l’opera è scritta in una lingua che non ha eguali, un siciliano misto a italiano. 

Definito come il “capolavoro impossibile” da pubblicare, proprio per la sua scrittura quasi «geroglifica», il documento originale è stato trasformato in una versione libro ridotta, ma che mantiene fedelmente lo stile dell’autore. 

Delle 1027 pagine del testo originale, solo una parte è stata scelta per la pubblicazione. Il libro è composto da ventuno capitoli. “I criteri cui ci siamo attenuti”, scrivono i curatori dell’edizione, “hanno inteso dar conto dell’intero percorso biografico dell’autore e della sequenza dei blocchi narrativi. Inoltre abbiamo voluto a ogni costo rispettare le scelte linguistiche dell’autore, conservandone quasi integralmente la peculiare grammatica”.

Tanto per avere un’idea di cosa stiamo parlando ecco  una porzione estrapolata da pagina 4.

“Io era picolo ma era pieno di coraggio, con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restai completamente inafabeto. Quinte io, che capiva che cosa voleva dai suoi figlie mia madre, per fare soldei mi n’antava magare allavorare lontano di Chiaromonte, bastiche io portava solde a mia madre.

Perché mia madre non dormeva alla notte, perché penzava che aveva 7 figlie: che lo più crante era da 14 o 15 anne, io Vincenzo ni aveva 11 0 12 anni, e la più picola figlia ni aveva 3 mese. Quinte io solo penzava che per manciare ci volevino solde, per non morire di fame questa famiglia senza padre”. 

Proprio per la sua particolare forza narrativa, le prime pagine spiazzano, ma è solo una questione di tempo, quanto basta per abituarsi all’incanto del  testo ed il gioco è fatto. E’ come trovarsi improvvisamente dentro un testo popolare-teatrale. 

Pensate, Rabito, non riusciva a scrivere correttamente nemmeno il proprio nome. “Vincenzo” viene storpiato più volte: a pagina 29 diventa “Vincenzu”, a pagina 158 “Vicienzo”, oppure a pagina 171 “Vicenzo”. 

Questo ci aiuta a capire la grandezza di quest’opera. Rabito ha voluto raccontare la propria vita, e per farlo ha duellato con la scrittura ed il proprio semi – analfabetismo. Il risultato finale  ha dell’incredibile: la biografia di un uomo del novecento, scrittore a sua insaputa. 

Dunque “Terra matta” è un libro speciale. Rabito narra la sua storia ma anche cinquant’anni di quella italiana. Molte pagine emozionano, altre divertono e fanno sorridere, tutte inteneriscono. Dicevamo che sembra di leggere un testo teatrale, un uomo solo sul palco, monologo che arriva diretto al lettore. Aveva ragione Andrea Camilleri, lo definì “un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso”. 

Di passaggi belli ce ne sono molti. Questo che segue è l’inizio del diciassettesimo capitolo, “Il pilo nell’uovo”. Rabito ricorda il 25 aprile 1945, poche righe ma dentro c’è tutto.

“Il tempo cominciava a campiare. La querra era alla fine, la Cermania stava per arrenterese tutta e la repubilica di Virona era stata distrutta, e tutte i parteciane antavino cercanto al duce per aciufallo e impercarllo e ciustiziare tutto il Cran conziglio fascista. E infatte, li hanno prese tutte; e Benito Mussoline, come è stato preso, li suoi ultime parole erino: «Non mi ammazzate, che ancora da me avete di bisogno».

Ma non ci ha stato più remedio, che la taglia era butata, che per forza tutte queste crante fasciste dovevino essere ammazate. E davero, il 25 aprile 1945, tutte li hanno preso e li hanno messo alla forca a Milano. E così, si diceva che il monto doveva campiare, perché stava per fenerese la querra. La cente era stanca di questa spaventusa querra, che tutto aveva stato distrutto”.

Ma per chiudere la recensione di un libro come questo, la soluzione non può che essere un’altra: riportarne l’incipit.

“Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaromonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata”.  

“Terra matta”, di Vincenzo Rabito, Einaudi, pp. 416, € 14,00 formato cartaceo, € 6,99 formato digitale.