ROMA -Evaso il 22 ottobre 1993 dalla clinica romana Belvedere Mondello, dove si trovava ricoverato in regime di arresti domiciliari, latitante quindi da 15 anni, sotto i falsi nomi di Enrico Longo, Franco Pennello, Giulio Dedonese, il 76enne Fausto Pellegrinetti è stato infine arrestato in Spagna, nel lussuoso attico del numero 9 del Paseo del Pintor Fernando Soria. Dovrà scontare la condanna a 13 anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droghe e al riciclaggio di denaro di origine criminale.
L’associazione a delinquere in questione è stata prontamente battezzata dalle agenzie di stampa come la Nuova Banda della Magliana, anche se il processo e la condanna a Pellegrinetti non riguardavano, né per i magistrati né per i giornali, nessuna banda che si rifacesse in qualche modo alla ormai mitica Banda della Magliana. Ma a Roma quando finisce nei guai una qualche associazione a delinquere capitolina viene subito battezzata con il logo di quella della Magliana, perché ormai fa notizia, è entrata infatti nell’immaginario collettivo come sinonimo di malavita organizzata romana. Insomma, una grande piovra i cui tentacoli sono la varie organizzazioni criminali e bande che salgono agli onori delle cronache giudiziarie.
Nel 2000 facevano notizia i reati, omicidi compresi, della banda della Maranella, nata e basata soprattutto a Tor Pignattara, e venne arrestato sempre in Spagna, nella bella isola molto turistica di Marbella, il suo boss Alessandro Saullo, uno degli esponenti di spicco dell’organizzazione criminale. Per catturarlo ci vollero otto mesi di indagini nate dalla cattura di un altro boss della Marranella, Giuseppe Refrigeri. Ai magistrati non è venuto mai in mente di associare Saullo, Refrigeri e l’intera banda della Marranella al nome dell’ormai più che defunto sodalizio Magliana. A colmare la lacuna ci pensò la bella giornalista Angela Camuso in un suo libro di facile lettura, purtroppo però – come avverte lei stessa in terza pagina – basato solo su atti della pubblica accusa, molti dei quali disattesi dalle sentenze.
Pellegrinetti è vivo ed è arrivato alla bella età di 76 anni solo perché non ama giocare a poker, altrimenti sarebbe stato accoppato anche lui già nell’83 insieme col suo amicone e socio Claudio Vannicola, detto «la Scimmia» per l’aspetto assai poco attraente. Una storia che vale la pena raccontare.
Il suo socio Vannicola era stato anche nella banda di Francis Turatello, finito squartato in carcere, aveva lavorato nel clan dei Marsigliesi con Abbruciati, ramo rapine e sequestri, ed era uscito da poco dal carcere dove era entrato per il sequestro di Barbara Piattelli, una giovane rapita il 10 gennaio 1980 a Roma e riemersa solo il 17 dicembre in Calabria. Uscito dal carcere, la Scimmia disponeva con Pellegrinetti di cocaina ed eroina di qualità migliore di quella della concorrenza. La spacciavano a Val Melaina e al Tufello, zone oltre Monte Sacro, e a prezzi popolari. Il mercato della droga era un business troppo redditizio, e c’era poco da scherzare o far finta di non capire. La piazza doveva essere loro da Ostia Lido, a sudest di Roma, fino a tutta la periferia nordovest della metropoli. Chi già spacciava poteva continuare a farlo, ma a patto di acquistare la droga da loro, cioè dal gruppo che riguardo questa particolare merce faceva allora capo principalmente a Maurizio Abbatino e Edoardo Toscano, detto L’Operaietto. Chi non rispettava tale legge finiva male. Molto male. Come i vari Nicolino Selis, Giuseppe Magliolo, detto Il Killer, e Mario Loria, che nonostante un curriculum criminale di tutto rispetto e il molto pelo sullo stomaco vennero man mano massacrati tutti, uno alla volta.
Gianni Girlando, detto Er Roscio, cioè Il Rosso, per via del colore dei capelli, e Vittorio Carnovale, detto Er Conijo perché non troppo azzardoso, avevano detto chiaro e tondo, per conto dei loro capi Roberto Fittirillo, Giovanni Campolattano, a Pellegrinetti e alla Scimmia che la dovevano piantare con l’esagerata autonomia e con i prezzi troppo bassi. Ma i due ammoniti non se ne dettero per intesi.
Vannicola amava andare a giocare a poker verso sera al Circolo Monarchico Nazionale, nei locali del dopolavoro dell’Enal in via Capraia 9. Ci andò anche quel 23 febbraio dell”82. Era martedì grasso, non solo i ragazzini si divertivano ad andare in strada con la faccia mascherata nei modi più strani. Verso le sette di sera dalla Giulia che si ferma davanti al civico 9 di via Capraia scendono un Paperino dal sorriso stampato in faccia e due sulfurei diavoletti con le corna e il cappuccio rosso inferno. Entrano allegramente tutti e tre nel dopolavoro Enal, passano davanti al bar senza salutare nessuno e ignorando bellamente il cartello con la scritta “Ingresso riservato ai soci” si infilano nello stanzone del Circolo Monarchico. I diavoletti impugnano una pistola a testa, Paperino un fucile a canne mozze. E non era uno scherzo di Carnevale. Non si sa se Vannicola a poker stesse vincendo o perdendo, l’unica cosa certa è per lui quella fu la sua ultima partita. E vi perse la vita. Paperino continuando a sorridere gli sparò un colpo e i diavoletti gliene spararono tre.
Il suo amico Pellegrinetti invece la vita non la perse perché non giocava a poker ed ebbe l’accortezza di portarsi appresso dieci amici, tutti armati, sotto la statua di Garibaldi al Gianicolo la sera in cui andò all’appuntamento chiestogli «per parlare di affari» da Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte, con il quale aveva lavorato nella banda dei Marsigliesi. Er Camaleonte si presentò con Er Conijo Carnovale, con L’Operaietto Toscano e con un paio di altre persone. Arrivato all’appuntamento, il gruppone di Abbruciati si rese conto immediatamente che una sparatoria più affollata della “sfida all’Ok Korral” era da evitare e che se Pellegrinetti lo avessero accoppato nei giorni successivi sarebbe stato chiaro a tutti i suoi dieci amici di chi era la colpa. Dieci testimoni erano decisamente troppi.
Che fare? Abbruciati ebbe l’idea geniale di trasformare quei dieci intrusi in altrettanti testimoni dell’estraneità sua e del suo gruppo con il benservito dato alla “Scimmia”: si mise infatti ad accusare proprio Pellegrinetti, socio del morto, di averlo fatto fuori lui per tenersi tutta la torta. Volarono le male parole, ma solo quelle. E Pellegrinetti, capita l’antifona, ritenne più saggio sgomberare il campo sia da Val Melaina che dal Tufello. Finito in galera e condannato, nel ’93 pensò di sgomberare il campo anche dalla clinica dove era agli arresti domiciliari e sparire.
E’ riemerso dopo 15 anni, in manette in Spagna.