Emanuela Orlandi, la bufala del “Pignatone nostro”, l’intercettazione che non c’è

di Pino Nicotri
Pubblicato il 15 Novembre 2018 - 10:01| Aggiornato il 10 Novembre 2020 OLTRE 6 MESI FA
Emanuela Orlandi (nella foto), la bufala di Pignatone nostro, l'intercettazione che non c'è

Emanuela Orlandi, la bufala di Pignatone nostro, l’intercettazione che non c’è

E veniamo ora a un altro falso diventato un cavallo di battaglia per tenere in scena il mistero Orlandi e la macchina del fango che lo alimenta. Per screditare il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, reo di avere finalmente deciso nel maggio 2015 l’archiviazione dell’inchiesta condotta a rilento e senza costrutto dal magistrato Giancarlo Capaldo, viene utilizzata da tempo l’accusa che fosse in combutta con la vedova di Enrico De Pedis. Il famosissimo De Pedis diventato l’ubiquitario e immancabile prezzemolo in ogni minestra malavitosa nonché il noto “Dandy”, lo “spietato boss della banda della Magliana” solo dopo la sua morte e solo per sentenza emessa non dai magistrati, bensì dai mass media.

Da notare che l’archiviazione un anno dopo è stata confermata anche dalla Cassazione, oltre che dal magistrato dell’udienza preliminare Giovanni Georgianni, al quale avevano fatto ricorso gli Orlandi sia pure divisi sulle piste da seguire. Mentre il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi punta sempre il dito contro qualunque pista che faccia clamore, a partire dalla banda della Magliana e annessa pista “mafia, camorra, malavita romana, servizi segreti, massoneria” e via almanaccando, sua madre, signora Maria Pezzano, sostiene invece la cosiddetta pista internazionale, quella cioè a base di terroristi turchi, servizi segreti sovietici, bulgari, tedeschi dell’est e annessi e connessi. Insomma, in ogni caso fuochi d’artificio e conseguenti botti rumorosi tutto fumo e niente arrosto.

 Archiviazione a prova di bomba, quindi, e al di sopra di ogni possibile sospetto.  Ma ecco che Pignatone viene accusato di essersi messo d’accordo con la vedova De Pedis, signora Carla, per troncare, chiudere e seppellire l’inchiesta perché a dire ancora oggi di Pietro Orlandi “In Vaticano erano terrorizzati”. Per sostenere la sua accusa ecco che Pietro Orlandi “rivela” ovunque può che in una intercettazione telefonica la vedova De Pedis il procuratore Pignatone lo ha definito “Pignatone nostro”. E poiché la signora era al telefono con don Piero Vergari, il rettore della basilica di S. Apollinare diventata famosa insieme con lui perché vi si era sposato, con Carla, e vi era stato tumulato lo “spietato boss”, prima sepolto al Verano, ecco che all’aggettivo possessivo “nostro” è stato immediatamente fatto assumere un significato losco. Il significato di un accordo sia con la vedova che con don Vergari e, chissà, forse anche con l’intera banda della Magliana o quel che ne è restato secondo i visionari e i sognatori incalliti. 
Il “Pignatone nostro” è diventata così una delle bandiere sventolate da Pietro Orlandi a riprova del grande “gomblotto” (con la g) che ha fatto sparire Emanuela e impedisce quindi in tutti i modi che la verità  venga a galla. “Gomblotto”, si noti bene, che comprenderebbe quindi anche la stessa Cassazione. 

C’è però un piccolo particolare, a dire il vero neanche tanto piccolo: le parole “Pignatone nostro” NON – ripeto: NON – esistono in nessuna intercettazione delle telefonate della vedova De Pedis. La quale non s’è mai neppure sognata di pronunciarle. Lo DIMOSTRANO le 19 pagine che nell’atto giudiziario n. 403943 riportano i passi salienti delle 18 telefonate di don Vergari riguardanti il caso Orlandi, comprese le 10 telefonate intercorse tra lui e la signora Carla. L’atto giudiziario in questione è stato spedito il 24 maggio 2012 dall’allora capo della Squadra Mobile della questura di Roma, Vittorio Rizzi, alla Procura della Repubblica di Roma e per conoscenza al sostituto procuratore Simona Maisto, incaricata dell’inchiesta sul mistero Orlandi. Il numero di protocollo è: 500/Sq.Mob./D-(AC). L’Oggetto è: Proc. Pen. 11694/10 R.G.N. – ex 33188/08 R.G. PM.

Le telefonate tra Carla De Pedis e don Vergari sono per l’esattezza intercorse tutte nel maggio 2012, sono tutte successive alla riesumazione della salma di De Pedis avvenuta il giorno 14 e sono avvenute nei seguenti giorni a partire da quello immediatamente successivo alla riesumazione:

– martedì 15, con inizio alle ore 19:33 e 36 secondi;
– giovedì 17, con inizio alle ore 12:29 e 33 secondi; 
– stesso giorno, con inizio alle ore 13:08 e 26 secondi;
– sabato 19, con inizio alle ore 10:13 e 8 secondi;
– stesso giorno, alle 13:10 e 8 secondi;
– stesso giorno, con inizio alle ore 21:45 e 13 secondi;
– domenica 20, con inizio alle ore 16:24 e 8 secondi;
– stesso giorno, con inizio alle ore 18:14 e 59 secondi;
– martedì 22, con inizio alle ore 14:13 e 16 secondi;
– stesso giorno, con inizio alle ore 18:21 e 51 secondi;

La relazione al magistrato ha inizio con l’affermazione che la decisione di aprire finalmente la bara 

“ha scatenato le violente reazioni delle persone coinvolte, soprattutto di Carla Di Giovanni [in De Pedis] e di don Piero Vergari”.

A parte il fatto che era stata proprio la signora Carla a chiedere da qualche anno che la bara venisse aperta e ne fosse controllato il contenuto, motivo per cui non c’era nessun motivo per avere “violente reazioni”, non è dato comunque sapere quali siano state: la stampa non ne ha mai avuto notizia e non esiste nessun atto giudiziario che ne parli. 
I commenti della Squadra Mobile al contenuto delle telefonate mettono in cattiva luce i due interlocutori; vi viene definita “di grande interesse investigativo” la telefonata del 17 maggio tra don Vergari e sua sorella. L’asserito interesse investigativo è accreditato alla frase del sacerdote che, esasperato dalle sparate di Pietro Orlandi contro di lui, il Vaticano, la basilica di S. Apollinare, De Pedis, ecc., sbotta:

“Mo’ solo perché questo fa fracasso a questa maniera devono da’ ascolto alla verità? TANTO È TALMENTE COMPLICATA”,

dove le maiuscole sono nell’originale della Squadra Mobile. Dove non ci si è resi conto che “la verità” di cui parla don Vergari è quella sempre cangiante di Pietro Orlandi e non la verità della quale fosse ipoteticamente a conoscenza il sacerdote. Se ne sono però resi facilmente conto i magistrati, che in quello sfogo non hanno rilevato nessun “interesse investigativo”, né grande né piccolo, anche perché sanno benissimo che “la verità” di Pietro Orlandi è davvero quanto di più complicato si possa immaginare, del tipo “uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello.

Per calmare l’esasperazione di don Vergari, del quale era stata anche diffusa per televisione e pubblicata da giornali e social una telefonata allusivamente porno gay fattagli per scherzo da un seminarista, Carla Di Giovanni si inventa un colloquio del suo avvocato Maurilio Prioreschi con Pignatone nel corso del quale il procuratore della Repubblica avrebbe assicurato che intendeva chiudere al più presto la sempre più inutile e dispersiva inchiesta. Archiviazione, si badi bene, decisa però da Pignatone solo tre anni dopo! Altro che “al più presto” come millantato dalla Di Giovanni per calmare don Vergari, peraltro senza mai sognarsi di dire “Pignatone nostro”, espressione che nelle 19 pagine NON esiste.

Oltre alla smentita dell’avvocato Prioreschi, i mille e passa giorni intercorsi tra le assicurazioni della vedova De Pedis a don Vergari e la decisione presa dalla Procura di archiviare l’inchiesta sono la migliore dimostrazione di come non possa essere assolutamente vero che il procuratore della Repubblica avesse dato quelle assicurazioni all’avvocato. E sono soprattutto la migliore dimostrazione che il “Pignatone nostro” NON esiste, non esiste cioè nelle intercettazioni e non esiste neppure nella realtà: NON è cioè nella manica dei De Pedis, della banda della Magliana, del Vaticano, dei servizi segreti, della massoneria e quant’altro elencato nel “gomblotto” del quale Pietro Orlandi da anni si dice stranamente certo, ma sempre senza mai esibire neppure mezza prova oltre alle sue private convinzioni.

Da notare, infine, che don Vergari, per quanto esasperato dalle voci diffamatorie diffuse contro di lui anche in televisione, non s’è mai preoccupato di nominarsi un avvocato che lo assistesse quando è stato interrogato dai magistrati sulla storia della famosa sepoltura nella basilica, della quale era il rettore. Il suo ritornello, anche nelle telefonate intercettate dalla Squadra Mobile mentre parlava con sua sorella e con alcuni conoscenti, è sempre stato del tipo “io con la storia di Emanuela Orlandi non c’entro nulla, quella ragazza non l’ho mai neanche vista, perciò non c’è nessun motivo per il quale dovrei prendermi un avvocato e spendere pure dei quattrini”. E i fatti gli hanno dato ragione.