Da scimmia a uomo con la carne: intelligenti per il filetto?

di Mario Tafuri
Pubblicato il 28 Ottobre 2015 - 09:46 OLTRE 6 MESI FA
Da scimmia a uomo con la carne: intelligenti per il filetto?

Uno scimpanzé, milioni di anni fa, preferì la carne alla frutta e diventò tanto intelligente da trasformarsi in uomo

ROMA – La scimmia è diventata uomo (e donna) quando ha smesso di mangiare banane e ha iniziato ha mangiare carne. Questo è ormai un fatto certo, una pietra miliare nella storia umana. Gli allarmisti dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc) e della Organizzazione Mondiale della Sanità, una Onu dei medici nota per avere indotto spese di milioni per vaccini mai usati, dichiarando guerra alla carne hanno cancellato un pezzo di storia dell’umanità. L’allarme non è così diretto, così mirato, ma va nel senso delle nuove mode, vegetariane e vegane, che guadagnano sempre nuovi seguaci.

Il punto di passaggio dalla scimmia all’uomo è individuato nel libro di Nicholas Wade, “Before the Dawn. Recovering the lost history of our ancestors” (Prima dell’alba. Ricostruiamo la soria perduta dei nostri antenati). Qualche milione di anni fa, ci fu un periodo di forte siccità che mise in crisi le foreste africane. Mancava la frutta, di cui le scimmie si nutrono e alcune di loro, davanti alla alternativa morire o innovare, preferirono calarsi dagli alberi e cercare nuove fonti di nutrimento nella pianura. Non erano certo le erbe della savana a fornire l’alternativa alle banane. Così quei nostri remotissimi antenati dovettero adattarsi e diventare carnivori.

Da lì nacque tutto, prima la intelligenza.

Poi l’uomo si accorse anche, senza bisogno di scienziati o medici,  della necessità di integrare la dieta di sola carne con altri alimenti. Ma le cucine dove scarseggia o manca la carne sono cucine povere, non sane. La pellagra era sinonimo di polenta ed era molto più diffusa della gotta.

Sarà un caso, ma da quando la maggiore efficienza dei trasporti ha reso possibile una capillare distribuzione e l’aumento del reddito per quello sviluppo, che solo i profeti di sciagura della decrescita felice possono rinnegare, ne ha favorito il consumo, la vita umana si è allungata (farmaci, vaccini, certo, tutti figli del progresso industriale non della decrescita) e, per per quel che vale, la statura.

“Siamo nati carnivori o vegetariani?”, si chiede Fabio Di Todaro sulla Stampa di Torino e la risposta che gli dà un esperto, “non scontenta nessuno”:

“L’uomo è da sempre onnivoro, nel tempo sono cambiate soltanto le modalità di approvigionamento del cibo. Oltre diecimila anni fa eravamo cacciatori e raccoglitori, dopo siamo diventati più stanziali, avviando l’agricoltura e l’allevamento. La nostra vittoria evolutiva si nasconde proprio nell’essere in grado di mangiare tutto”

gli ha detto Marino Niola, ordinario di antropologia e direttore del centro di ricerche sociali sulla dieta mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

 

Fabio Di Todaro cita il libro di Niola “Homo Dieteticus” (Il Mulino, 146 pagine, 13 euro):

“Siamo nel mezzo di una Guerra Santa che ha nei guru delle diete i suoi Savonarola”.

Ma, commenta,

“vale la pena ricordare che prima di diventare sushisti, carbofobici, vegani, crudisti e raccoglitori, c’è stata un’epoca in cui la carne era simbolo di virilità e i guerrieri si misuravano in spiedi: tre, due uno e nessuno. «Come dire uomini, sottuomini, ominicchi e quaquaraquà», afferma l’antropologo, parafrasando Sciascia. Un messaggio diretto alle “tribù” più integraliste, che hanno preferito riscoprire l’ascetismo alimentare di Pitagora in nome di ragioni etiche e antropologiche. Va bene tutto, fuorché la carne, dimenticando però che la caccia, la cottura e la spartizione del bottino hanno accresciuto la capacità dell’uomo di vivere in società. Un modello presente già nei banchetti omerici che è resistito al trascorrere dei secoli”.

Fabio Di Todaro va oltre:

“C’è anche chi, come il collega inglese Richard Wrangham, suppone che l’avvento della cottura non abbia reso l’uomo soltanto più espansivo, ma pure più arguto (”L’intelligenza del fuoco”, Bollati Boringhieri, 293 pagine, 20 euro). Se fosse davvero così, ci troveremmo di fronte a un’inversione storica. Non saremmo noi ad aver migliorato il cibo che portiamo in tavola, ma il fuoco ad aver reso una scimmia più evoluta. Quanto basta per mettere da parte le crociate contro arrosti e bistecche”.