ROMA – Arezzo con Firenze, Rimini con Ravenna, cosa accadrà quando la scure dei tagli si abbatterà sull’Italia obesa delle province? Una guerra tra campanili, un balletto di accorpamenti impossibili e una cura dimagrante radicale. Solo una questione di numeri, forse, ma nella storia d’Italia sono un’infinità le città rivali costrette a immaginarsi riunite per tentare di “sopravvivere” ai tagli del governo. Se è vero che non c’è stata legislatura che non istituisse una nuova Provincia, non c’è stato politico che non abbia raccolto voti propagandando nuovi diritti territoriali da riunire sotto un nuovo campanile, le province italiane si trovano ora da dover rimpiangere quei fasti.
Sono tre i parametri che garantirebbero la sopravvivenza, secondo il progetto di Patroni Griffi: minimo 350 mila abitanti, minimo 3 mila Km quadrati, minimo 50 Comuni. Impresa (im)possibile per tante realtà che negli anni delle moltiplicazioni si sono abituate a pensare le proprie storie separate. Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, le province erano solo 59: la loro estensione era misurata in base al tempo di percorrenza, una giornata a cavallo e scattava la linea di confine. Nonostante l’invenzione delle auto e l’avvento di trasporti più veloci, nel 1947 erano diventate già 91. Non c’erano le Regioni, arrivate soltanto nel 1970, anno dopo il quale nessuno ha però mai avuto il coraggio di tagliarle: sono, anzi, rimaste lì come serbatoio di poltrone e posti da spartire nelle manovre di sottogoverno.
Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera, ripercorre le vicende di alcuni enti divisi dalla storia o creati in laboratorio. E profila uno scenario di accorpamenti impossibili: la prima è Ascoli Piceno, divisa a metà per consentire la nascita di Fermo, ora è costretta a dissolversi. “A meno che – scrive Rizzo – i fermani, due anni dopo aver brindato alla nuova Provincia, non vogliano tornare indietro. In caso contrario, c’è sempre Macerata”.
E che dire dei lodigiani: ci hanno messo secoli per affrancarsi da Milano e ora dovranno tornare sotto le guglie della madunina dopo appena vent’anni di indipendenza. O Forlì, che nel 1992 fu costretta a mollare 27 comuni alla neonata Rimini e allargare la denominazione a Cesena. “ma ora di dovrà fare marcia indietro – si domanda Rizzo – in una nuova grande Provincia romagnola che comprenda anche Ravenna?”.
In Toscana, poi, sopravviverebbe la sola Firenze, se non fosse che, fa notare Rizzo, “fiorentini e aretini si guardano in cagnesco dalla battaglia di Anghiari di sei secoli fa”. E “chissà quanti livornesi stanno ripassando in vista di un possibile matrimonio con Pisa la lista dei proverbi, cominciando dal più famoso: Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”.
Per non parlare delle più recenti province a “testata multipla”: “Per esempio, quella della Venezia orientale: con due capoluoghi come Portogruaro e San Donà di Piave. O quella del Basso Lazio, capitali Cassino, Formia e Sora. Oppure l’Arcipelago Toscano. Ma il top è la proposta di creare la Provincia Ufita-Baronia-Calore-Alta Irpinia partorita da Lello di Gioia, nato a San Marco La Catola, nel foggiano, che allargò così gli orizzonti di chi ignorava l’Ufita”.
E ancora: Verbano-Cusio-Ossola o la mitica Bat, Barletta-Andria-Trani. “Dieci comuni in tutto, tre dei quali capoluoghi di Provincia. Gli altri sette, perché no?”, si domanda Rizzo.