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Frane: 3,5 milioni di italiani vivono in zone a rischio

di Alessandro Avico |7 Dicembre 2010 13:25

Ogni giorno 3,5 milioni di italiani vivono e lavorano in zone dove è alto il rischio di frane e alluvioni, mentre in due comuni su dieci si è fatto ancora peggio, realizzando in quelle aree ospedali e scuole.

L’ennesima fotografia di un paese che anno dopo anno perde pezzi alle prime piogge arriva dal rapporto “Ecosistema rischio 2010″, realizzato da Legambiente con il Dipartimento della Protezione Civile: un quadro allarmante che conferma come l’utilizzo spregiudicato del suolo, l’urbanizzazione sempre più pressante e l’abusivismo dilagante siano fattori ”determinanti” delle catastrofi.

Basta un dato su tutti: nell’ 82% dei comuni oggetto dell’indagine sono state costruite abitazioni in aree a rischio di frane e di alluvioni.

L’indagine condotta da Legambiente e dalla Protezione Civile ha riguardato oltre duemila amministrazioni comunali, vale a dire il 37% dei 6.633 comuni inseriti nelle aree più a rischio dal ministero dell’Ambiente e dall’Unione delle province italiane. E il quadro che emerge è tutt’altro che rassicurante, anche in considerazione del fatto che soltanto nell’ultimo anno sono stati stanziati 650 milioni per fronteggiare le più gravi emergenze idrogeologiche.

”I danni provocati dalle recenti alluvioni in Veneto, Calabria e Campania – dice Muroni – sono la testimonianza di quanto il nostro paese sia sempre più esposto al rischio idrogeologico”. E dunque ”non può bastare il sistema di pronto soccorso per l’emergenza già in corso, ma è necessaria una concreta politica di prevenzione, agendo su quei fiumi, torrenti e fossi che sembrano rappresentare oggi la vera emergenza dell’Italia”.

”La vera grande opera di cui ha bisogno il paese – aggiunge il responsabile protezione civile di Legambiente, Simone Andreotti – è un intervento di prevenzione e manutenzione dei corsi d’acqua su scala nazionale. Un’opera di prevenzione improrogabile” che faccia della ”sicurezza della collettività una priorita”’. Parole confermate dai dati raccolti, ancor più veritieri in quanto frutto di un’autocertificazione dei comuni e non di un’interpretazione di Legambiente.

E dunque: nell’82% dei comuni sono presenti abitazioni in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana; nel 54% vi sono nelle stesse aree fabbricati industriali e in tre comuni su dieci (31%) ci sono addirittura interi quartieri a rischio. Nel 19% dei comuni, invece, sono gli ospedali e le scuole ad essere stati costruiti in aree di pericolo. Solo il 22% dei comuni, dice il rapporto, svolge in modo positivo il lavoro di mitigazione del rischio mentre quasi un’amministrazione su 2 (43%) non fa praticamente nulla per prevenire frane e alluvioni.

Unica nota positiva, se così si può chiamare, è che il 76% dei comuni ha un piano d’emergenza in caso di pericolo: ma nel 51% dei casi si tratta di piani che non sono stati aggiornati negli ultimi due anni. Quanto alla delocalizzazione delle abitazioni nelle zone a rischio, soltanto il 6% dei comuni ha intrapreso iniziative positive e solo il 3% ha fatto lo stesso per insediamenti e fabbricati industriali. Perchè? C’è, dice Legambiente, ”una generale resistenza delle popolazioni ad accettare” la delocalizzazione, ”anche a fronte di un rischio acclarato”.

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