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“Con gli alpini nel deserto dei Tartari”: Mimmo Càndito per La Stampa

di Alessandro Avico |9 Febbraio 2011 11:32

Blitz quotidiano vi propone oggi come articolo del giorno quello di Mimmo Càndito su La Stampa che parla degli italiani in Afghanistan, con gli alpini nel deserto dei Tartari. Nel cuore della guerra, alla base avanzata “Snow”, “qui si combattono tre guerre, quella degli italiani è la più difficile”.

Hai la bandiera, certo, hai i compagni e il sergente, hai gli ordini, hai il tuo mitra e laggiù anche il mortaio, hai la guerra che nessuno deve chiamare guerra, hai anche il cesso chimico, hai perfino un vecchio frigo e le razioni che una volta per settimana l’aereo ti lascia cadere a due passi con il paracadute, hai tutto, insomma, per sentirti abbastanza a posto nella scelta che hai fatto, di voler essere un soldato di professione, ma poi l’isola è pur sempre un’isola, e la morte, la morte, sta acquattata lassù, dentro questo orizzonte soffocato, e ti guarda con occhi ciechi da dentro l’oceano di quelle montagne, quei dirupi, quelle forre inquietanti che ti strapiombano sopra che ti pare di poterle toccare con una mano e però nella notte ti danno gli incubi. Perché sì che sei un soldato ma sei anche un ragazzo, che vuole vivere. E fa di tutto per poter continuare a pensarlo.

Il cop Snow è uno dei più arrischiati avamposti dell’esercito italiano nella guerra d’Afghanistan. Sta piantato dentro il nulla nella valle del Gulistan, deserto e pietre dovunque, e, attorno, solo queste montagne nude e il silenzio, muto, angoscioso, di un mondo invisibile, perduto dentro agguati e incursioni che a bocca chiusa ti dicono: sei in territorio nemico, non dimenticarlo se vuoi vivere ancora. È nel budello stretto e lungo di Snow che un paio di settimane fa un soldato afghano, un soldato «amico», ha ammazzato il primo caporalmaggiore Sanna sparandogli a tradimento, a bruciapelo, e ancora oggi nel budello di Snow – sono 15 metri per 40 contornati da un murastro continuo di sacchi di terra e pietre alto 2 metri – i nostri soldati, poco più d’una ventina, convivono con i loro compagni afghani, una decina; stanno tutti assieme dentro il budello di sabbia e di sassi, di qua gli italiani, di là dietro un basso muretto gli afghani. Dentro si circola solo con le armi scariche; non sarebbe dovuto accadere, ma è accaduto. E Sanna è morto. «L’ho preso tra le mie braccia che ancora respirava», dice a voce bassa il primo caporalmaggiore Antonio Tursi. E non vuole dire altro. […]

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