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Cefalonia, il caporale tedesco: “Vorrei non essere mai stato soldato”

di Maria Elena Perrero |24 Marzo 2012 16:49

KIPPENHEIM (GERMANIA) – “Ma non è ancora finita questa storia?”: il caporale tedesco della strage di Cefalonia, Alfredo Stork, parla al Corriere della Sera, ricordando quando, dopo l’armistizio (8 settembre 1943) i soldati italiani furono uccisi dai reparti dell’esercito tedesco.

A parte la polizia criminale che lo ha interrogato tre volte, Stork non ha mai raccontato a estranei la sua storia, i ricordi di quel settembre in cui due plotoni d’esecuzione che massacrano “almeno 117” ufficiali e soldati italiani della Divisione Acqui.

Il caporalmaggiore Stork e il suo gruppo, ricorda Giusi Fasano sul Corriere, ne falciarono 73, l’altro plotone il resto. Adesso il procuratore militare di Roma Marco De Paolis ha chiesto il rinvio a giudizio per Stork, perché “partecipò materialmente” a una strage “in danno di militari italiani prigionieri di guerra”, eccidio “senza necessità e senza giustificato motivo”.

“È venuto l’avvocato a dirmi che in Italia volete processarmi. Ma io non ci verrò, a quel processo. Dopo tutto questo tempo, che senso ha?”. Non che abbia paura del carcere: “Che possono farmi alla mia età, arrestarmi? Io sono vecchio, lo vede?”. Per tutta la vita però, lo confessa, non è venuto in Italia perché ha temuto le manette, “ormai è andata così, non ci sono mai stato né mai ci metterò piede. Ma se il processo fosse qui in Germania mi presenterei in aula, è ovvio”.

“Ho sparato, l’ho sempre detto. Quando ci diedero l’ordine di sparare agli italiani ricordo che dissi all’ufficiale “perché mai dobbiamo fare una cosa del genere?”. Solo per aver fatto questa domanda fui punito, dovevo avere la promozione a sottufficiale ma fu stracciata… Non capivo e non potevo capire. Non sapevo niente dell’armistizio e del fatto che all’improvviso gli italiani erano diventati nemici traditori da abbattere. Per questo mi chiesi il perché di quel massacro. Erano stati alleati fino al giorno prima… io non avevo niente contro di loro”. Però non si oppose. “Che potevo fare? Erano ordini. Quello che pensavo io non contava niente. Loro erano prigionieri ed eravamo in guerra. Mi dispiace davvero per tutta quella gente. Ma io dovevo ubbidire. Ero un soldato e avevo vent’anni…”.

Stork ricorda i cadaveri: “Alla fine ne ho contati 97” aveva rivelato nella sua prima deposizione. I 73 del suo plotone e alcuni dell’altro per i quali la Procura lo accusa comunque di “concorso morale”. “Li rivedo e ci penso sempre, ci penserò fino all’ultimo giorno e già questo per me vuol dire pagare il conto. Quel giorno fu il peggiore di tutto il mio tempo di guerra, molto peggio che sul fronte russo”. Che cos’ha imparato dalla guerra? “Che avrei preferito non essere mai stato un soldato”.

 

 

 

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