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Camorra, un pentito rivela: “I servizi segreti chiesero la ‘pace’ al boss Misso”

di Alberto Francavilla |20 Maggio 2010 0:24

Un collaboratore di giustizia ha svelato che al boss camorrista del rione Sanità Giuseppe Misso fu chiesto di mettere fine alla guerra tra i clan in quanto “c’era la necessità che nella città di Napoli non ci fossero scontri diretti tra le organizzazioni camorristiche o faide eclatanti perché c’erano in corso procedure per opere pubbliche importanti” e “soprattutto le istituzioni non dovevano essere ‘insidate'”.

A rivelare il presunto intervento di apparati dello Stato per realizzare una tregua tra le cosche napoletane è il pentito Michelangelo Mazza, nipote di Misso. L’interrogatorio risale al 10 settembre 2007.

Il collaboratore di giustizia parla di un incontro che si sarebbe svolto alla sua presenza alcuni anni fa in un ristorante di Salerno tra Misso e due persone “la prima di circa 60 anni, portava un vestito, la seconda aveva più o meno 40 anni e portava una maglietta e un jeans”. Mazza racconta che, armato di due pistole, svolgeva il ruolo di guardaspalle dello zio che temeva di finire in una trappola. “La persona più giovane – racconta il pentito intervenne nella conversazione volendo puntualizzare che loro non chiedevano delle cose ma le ordinavano”.

Il presunto incontro non ha una datazione precisa, tuttavia il collaboratore lo colloca “tre mesi prima che avvenisse la scarcerazione di Eduardo Contini”, esponente di primo piano della camorra napoletana contro cui erano in guerra i Misso. Il più anziano degli interlocutori precisò che Misso “non sarebbe stato da solo in questa opera finalizzata a garantire una specie di assestamento e ad evitare una guerra di camorra”.

L’uomo rivelò che “di lì’ a poco un suo amico sarebbe stato scarcerato e che lui, quindi, avrebbe dovuto accodarsi. Disse che loro sapevano bene quali erano le nostre difficoltà economiche e che però si sarebbe aperta per noi una prospettiva diversa ed avremmo potuto guadagnare molto”.

“La persona anziana – ha aggiunto – invitò mio zio a considerare che ormai i tempi erano cambiati e che comunque loro sarebbero stati presenti in questa situazione almeno sino a quando mio zio non si sarebbe di nuovo esposto. Il colloquio terminò senza che venissero pronunciate parole esplicite o di rassicurazione. Anzi, in verità, tutta la conversazione fu allusiva e nessuno disse parole chiare ed esplicite”.

Ma chi erano i due interlocutori? “Compresi che appartenevano alle istituzioni, forse ai servizi segreti, e che in sostanza dicevano a mio zio che doveva adoperarsi per impedire una guerra di camorra e che l’unica cautela per lui e per la sua vita era quella di limitarsi a fare il criminale senza pensare a cose diverse e riguardanti le istituzioni”.

“Dopo un po’ di tempo – racconta il collaboratore di giustizia – avvenne con modalità molto singolari la scarcerazione di Eduardo Contini e quasi subito dopo Contini fece una offerta insistita e reiterata di pace a mio zio. Ho già spiegato in altri verbali la modalità e i tempi in cui intervenne l’accordo tra mio zio e Contini. E’ ovvio che pensai subito alla previsione fatta dalla persona anziana nel corso del colloqui a Salerno, cioé a quell’amico di mio zio che sarebbe stato scarcerato e che si sarebbe adoperato per la pace in città. Ma anche altri successivi avvenimenti sono stati da me interpretati come manifestazione concreta di quel discorso fatto a Salerno”.

Il pentito cita l’incontro con un tale Franco, calabrese, che avrebbe proposto a Misso il monopolio sulla droga da spacciare a Napoli, una proposta che sarebbe stata rifiutata, e si sofferma sull’intervento di un altro boss della camorra, Paolo Di Lauro, che si sarebbe attivato per fare ottenere a Misso un grosso prestito di denaro: “Diceva che lui avrebbe perso quei cinquecento milioni ma che si stavano aprendo prospettive più fruttuose dal punto di vista economico e che quindi quella somma era poca cosa rispetto a ciò che stava per accadere”.

“Tante volte, prima del suo ultimo arresto – ha affermato Michelangelo Mazza – mio zio mi ripeteva che io avrei dovuto sempre adoperarmi affinché nulla succedesse nella città di Napoli, cioé non scoppiasse una guerra di camorra”. Giuseppe Misso, interrogato dai pm, non ha tuttavia confermato le dichiarazioni del nipote. “Questo racconto è assurdo e vi chiedo di mettermi a confronto con mio nipote Michelangelo”, ha detto ai magistrati.

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