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Genova. Paride Batini, console dei camalli, assolto con onore dopo la morte da un reato che non c’era

di fmanzitti |14 Marzo 2011 3:18

Paride Batini

Non era mai successo a nessuno di essere assolto ben dopo la morte, anche perchè la morte estingue il reato. A Paride Batini, il leggendario console della CULMV, la Compagnia dei portuali del porto di Genova, gli scaricatori discendenti dai caravana dei tempi medioevali, è successo questo, quando il giudice Maurizio De Matteis, Gip al Tribunale di Genova, ha scritto le motivazioni della sentenza al processo che per due anni e mezzo ha lacerato la città, il porto, i suoi protagonisti, ma prima la vita e poi la memoria di questo portuale, calato nella tomba con un sospetto intollerabile per la sua coscienza di vecchio camallo, di marxista duro e puro fino alla fine, di console degli scaricatori nell’era più difficile delle banchine genovesi: aver truffato facendosi pagare milioni di euro per lavori non fatti dai suoi uomini.

Ha scritto il giudice Maurizio De Matteis in una sentenza monumentale di primo grado che mette una pietra sopra una vicenda molto intricata: “Altro che truffa, Batini ha salvato i moli genovesi. Le sue pretese erano legittime, anzi Batini si è battuto per difendere non solo i suoi, il loro lavoro ma le banchine genovesi in un clima difficile di scontri tra terminalisti e operatori portuali che si scannano da anni per spartirsi banchine e moli.”

Non che Paride Batini, per 27 anni fino alla morte, nell’aprile del 2009, console dei portuali, fosse stato travolto da quella accusa che nel gelido febbraio del 2008 lo aveva inchiodato, insieme al presidente del porto Giovanni Novi, arrestato con le camionette della Finanza che circondavano il Palazzo san Giorgio sede dell’ Autorità portuale e insieme alla crema della crema del mondo marittimo genovese, armatori come il mitico Aldo Grimaldi, quello delle Grandi Navi Veloci, big della logistica, come Aldo Spinelli, ex presidente del Genoa e presidente del Livorno calcio, “re” dei camion e dei trasporti, come superprofessori e consulenti del taglio di Sergio Carbone, avvocato, consigliere di Novi, maestro di diritto internazionale e grande arbitro di infinite contese marittimo portuali, ex presidente di Finmeccanica, come superburocrati dell’ establishment portuale, come Filippo Schiaffino (la famiglia ex proprietaria della Piaggio-Vespa) e Sandro Carena, segretario del Porto sotto tre presidenti, gran commis della burocrazia.

Che c’entrava con tutti quei personaggi da grandi capitali, grande potere, grandi professionalità, da salotti vip, il vecchio Paride, celebre per il suo eskimo verde, il suo look affascinantella a Charles Bronson, a capo di un esercito di camalli, aristocrazia del mondo operaio genovese, scesi dalle 3500 unità degli anni Ottanta alle 900 dell’epoca attuale? Che c’entrava questo camallo, nato da padre anarchico a Vico Pisano, trasferito a Genova da bambino a vivere nella profonda periferia operaia, portuale occasionale da subito, ex pugile, dal fisico duro come una roccia, dalla parlata genovese secca come una frustata, dal carisma travolgente quando si metteva in testa a un corteo di camalli, gru e rimorchi portuali?

L’accusa lo aveva ferito forse ancora più della malattia che se lo sarebbe portato via nel tempo del processo, ma non aveva fiaccato quell’uomo che aveva il suo ufficio in quella palazzina bianca che sta sulla collina di san Benigno, in mezzo al porto, sopra la storica Sala Chiamata, dove ancora oggi attaccati al muro, davanti ai banconi per i portuali che aspettano la chiamata, ci sono le foto di Marx, Lenin, di Guido Rossa, l’operaio ucciso dalle Br che aveva denunciato in Tribunale.

Paride si era sempre battuto per i suoi camalli, semmai loro travolti dalla violenta trasformazione del porto, privatizzato rapidamente tra la fine degli Anni Ottanta e i primi anni Novanta, ridotti nel numero e isolati nella battaglia politica, dopo il crollo del muro e della Cortina di ferro. Lui, il Paride e loro erano rimasti marxisti e leninisti e dal Pci, che diventava Pds, Ds, Dp e anche Rifondazione Comunista, li separava lo stesso muro che cingeva le banchine del porto allontanandole dal resto della città.

Batini aveva dovuto mettersi la giacca e la cravatta (e bucava il video anche così) per trasformare la Compagnia in una azienda che si trovasse il lavoro sulle navi da sola. E se no i camalli sarebbero spariti dalla faccia dei moli, sostituiti da un altro personale scelto dai privati.

Che altra strada c’era, se non mettersi in concorrenza, chiedendo in concessione una banchina, confinante con quelle dei potenti terminalisti rimontanti sulle banchine private?

Anche questo Batini aveva provato a fare per salvare la Culmv, dopo avere combattuto a viso aperto la privatizzazione. Quando il ministro Dc dei Trasporti, il famoso Gianni Prandini da Brescia, poi travolto da Tangentopoli, gli aveva sparato i decreti per togliergli l’esclusiva dello scarico delle navi, Batini e i suoi viceconsoli, una domenica mattina, avevano preso la macchina e si erano presentati senza alcun preavviso a casa del ministro: muso duro, educazione e richiesta di spiegazioni. Era finita con un bicchiere di bianco e Paride era tornato a casa con qualche vantaggio per i suoi ed aveva perfino ringraziato per l’accoglienza quelli che lui chiamava “mangianebbia”.

Ma fare impresa contro i colossi del trasporto, contro i big terminalisti, contro i potenti liners del mondo, che vedevano l’Eldorado sulle banchine genovesi, era impossibile per i camalli della Culmv. E così Batini aveva fatto i suoi passi indietro, dopo un discorso durissimo in genovese davanti ai camalli, schierati come una falange sui banchi della sala Chiamata. La Compagnia tornava a trattare con i “padroni”, come fornitrice di servizi, non era più una società che si cercava il traffico e scaricava il proprio e quello degli altri, ma metteva a disposizione degli altri la sua ancora inattaccabile competenza nel mettere a bordo e togliere la merce, nel manovrare le gru, nell’alzare e abbassare i container.

Ma chiedeva il prezzo giusto all’interlocutore giusto che ora era l’Autorità Portuale.

Qui si era scatenata l’inchiesta giudiziaria, sul presupposto che tutti quei lavori forniti nel grande porto, da Voltri dove arrivavano le grandi portacontainer cinesi ai moli di Sampierdarena , alle zone traghetti e Stazione marittima, erano stati superpagati. Accordo illecito tra il presidente, lo yacht men, molto english, molto signore, Giovanni Novi e lui, il Paride Batini e in cambio di cosa? L’accusa che ha crocifisso il console e il presidente per quasi tre anni è stata smontata dal giudice De Matteis nel verdetto e soprattutto nelle sue motivazioni, che spiegano come la contropartita di aiutare il presidente a farsi rieleggere sul trono di San Giorgio per altri quattro anni era assolutamente inesistente.

Batini aveva a cuore i suoi, il suo porto, il suo lavoro. Il presidente aveva commesso forse qualche errore nella corsa alla divisione dei moli, ma non aveva incassato la truffa sul lavoro proposta con i sovrapprezzi.

Peccato che mentre le accuse viaggiavano e il sospetto rodeva le banchine, Batini sia morto, senza sapere che giustizia sarebbe stata fatta per lui e per la Culmv.

I suoi funerali, nel cuore del porto, in una calda giornata di aprile del 2009, sono stati la scena più riassuntiva e paradigmatica del suo ruolo conteso, compresi gli inchini e le contrizioni dei nemici che avevano esultato alla sua messa in stato di accusa. Nella sala Chiamata la bara era stata posata in mezzo ai banconi dei soci, coperta da una bandiera rossa, circondata da una folla enorme, scortata da quattro giganteschi camalli con le braccia incrociate, baciata da una processione ininterrotta di amici fraterni, di vecchi compagni, ma anche di farisei e sepolcri imbiancati, i nemici di una vita. C’era anche un prete a pregare, in cotta bianca e con la stola intorno al collo, don Andrea Gallo, il sacerdote dei drogati, delle prostitute, amico di Paride che aveva officiato non sapendo se concludere il rito con l’acqua benedetta o con un pugno alzato. Poi Batini era stato calato sotto la nuda terra.

La verità sulle accuse a lui avrebbe atteso ancora più di un anno per emergere dalle spire del processo. Con un sigillo postumo che è una novità assoluta nella procedura. Batini ha cambiato anche il linguaggio delle sentenze. Ma da morto.

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