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Sequestro Aldo Moro, ex poliziotto Enrico Rossi: “Sulla Honda due dei servizi”

di Maria Elena Perrero |24 Marzo 2014 19:12

Il corpo di Aldo Moro (Foto Lapresse)

ROMA  – Sequestro di Aldo Moro, parla all’Ansa Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione che indagò sul rapimento di via Fani, a Roma.

“Sulla Honda c’erano due dei servizi segreti.  Gli agenti avevano il compito di “proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978″.   

ha dettoRossi all’agenzia.

“Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì”,

“Chiedo di andare avanti negli accertamenti chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la “pratica” rimane ferma per diversi tempo. Alla fine opto per un semplice accertamento amministrativo: l’uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma  si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una Beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo ‘Moro rapito dalle Brigate Rosse’, l’altra arma”.

E’ una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice.

Rossi insiste: vuole interrogare l’uomo che ora vive in Toscana con un’altra donna ma non può farlo. “Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade”.

Ci sono tensioni e alla fine l’ispettore, a 56 anni, lascia. Va in pensione, convinto che si sia persa

“una grande occasione perché c’era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato”.

Poche settimane dopo una “voce amica” gli fa sapere che l’uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte. Rossi attende molti mesi (dall’agosto 2012) prima di parlare, poi decide di farlo, “per il semplice rispetto che si deve ai morti”.

Ecco il testo della lettera inviata ad un quotidiano nell’ottobre 2009.

“Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”.

L’anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio di Torino.

“Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più”.

 

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