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Non scherzate con la Germania, in arrivo in Italia stangate da 50 miliardi all’anno

di Marco Benedetto |13 Febbraio 2011 17:36

Il “menù” che la Germania, con l’appoggio francese, ha cominciato a delineare nelle ultime settimane per la politica economica dei paesi dell’eurozona (e che dovrebbe venire compiutamente servito alla tavola dei 17 entro marzo) segna una svolta storica nel ruolo europeo dello Stato guidato da Angela Merkel. Un profondo cambiamento di rotta che non pare essere stato colto da chi continua a dare un’immagine caricaturale della politica di Berlino, scorgendo dappertutto solo ultimatum, “diktat”, insomma prepotenze perpetrate da “Frau Nein”, la Merkel, ai danni dei partner economicamente più fragili.

Queste etichette in qualche misura potevano ancora risultare appropriate una manciata di settimane o di mesi orsono, quando la Germania, di fronte alla crisi dei debiti sovrani di Grecia e Irlanda, sembrava preoccuparsi esclusivamente di limitare, ritardare, condizionare il “soccorso” ai paesi a rischio default, anche ventilando una ristrutturazione del debito di questi Stati a parziale carico dei suoi detentori. In altre parole, il primo obiettivo della signora Merkel era quello di far pagare il meno possibile ai suoi concittadini il prezzo della altrui finanza allegra, a costo di passare da un default all’altro e a rischio di mettere in ginocchio lo stesso euro.

Oggi la posizione tedesca potrà apparire altrettanto “dura” ma certo è drasticamente mutata sul piano qualitativo: al primo posto è passato infatti l’impegno solenne alla difesa dell’euro. Le tradizionali richieste di Berlino ai partner più indisciplinati, miranti a rafforzare il “patto di stabilità” rendendo più cogenti i vincoli su deficit e debito e aumentando i controlli europei sui conti pubblici, vengono ora affiancate da un “patto di convergenza economica rafforzata” che altro non è che un abbozzo di politica economica comune: una strada che fino a ieri la Germania si era sempre rifiutata di imboccare. L’ex “gigante economico e nano politico” pare intenzionato a svolgere quel ruolo di leadership anche politica nell’Unione europea alla quale era già da parechio tempo la naturale candidata per via della sua stazza, della sua stabilità, delle performances dei suoi prodotti sui mercati mondiali, in una parola per via del suo “wirtschaftwunder” (miracolo economico) degli ultimi anni, compresa la relativamente rapida uscita dalla crisi.

La recente rinuncia del presidente della Bundesbank, Axel Weber, a correre per la prima poltrona della Bce, probabilmente ha molto a che vedere con il new deal europeo alla germanica. Weber aveva osteggiato gli interventi della Bce sui mercati per acquistare bond degli Stati più deboli: con ciò si era alienato le simpatie delle altre banche centrali e dei governi e rappresentava la più tradizionale e restrittiva politica monetaria tedesca. Una posizione inadatta a svolgere nel prossimo futuro un ruolo di leadership anche sul piano monetario, a esercitare quell’autorità che, a differenza del mero esercizio del potere, conferisce egemonia.

Tornando alla “svolta” berlinese, come ha scritto di recente, sul “Corriere della Sera”, l’economista Marcello Messori, “per la prima volta in una sede ufficiale, la Germania si è assunta responsabilità dirette nella gestione dei debiti sovrani dell’Ume in cambio di un più stretto coordinamento fiscale e macroeconomico fra gli Stati membri”. Pur sottolineando questa assoluta novità Messori ritiene che, nella loro attuale versione, le misure proposte da Berlino suonino ancora come un diktat e abbiano “forme inaccettabili”: “anche se è l’indiscusso paese leader, la Germania non può avere la pretesa di trasferire – senza mediazioni – le proprie scelte nazionali o i propri desiderata al resto dell’Ume”. Il professore non è affatto il solo a pensarla in questo modo, vi è chi ha parlato di “modi farseschi” della Merkel e chi ha sostenuto che più che una Germania europea si sta profilando un’Europa tedesca.

Indubbiamente i tedeschi hanno maleducatamente messo i piedi sul tavolo presentandosi al consesso dei paesi dell’Unione monetaria (Ume) con un paniere di proposte già pronte e confrontate solo con gli acquiescenti francesi. Tra questi indirizzi il monitoraggio dell’effettiva spesa d’investimento in ricerca, istruzione e infrastrutture, e tanti altri obiettivi di politica economica in materie di stretta competenza dei singoli Stati, come la richiesta di norme di rilievo costituzionale in ciascun paese per vietare deficit del bilancio oltre una misura minima (in Germania si tratta dello 0,35 per cento)… Apriti cielo! La lesa maestà è stata invocata, ad esempio, da un gruppo di paesi fra cui Spagna, Portogallo, Belgio e Lussemburgo: Berlino propone infatti l’abolizione dei meccanismi di indicizzazione salariale in vigore in questi paesi che vi ravvedono quindi un’indebita ingerenza nelle loro scelte di politica economica.

Per non parlare di un’altra proposta, quella di portare progressivamente l’età di pensionamento a 67 anni, innalzandola parallelamente all’incremento della durata media della vita. Germania, Danimarca e altri hanno già previsto l’allungamento dell’età di quiescenza; persino l’Italia ha già in atto un meccanismo di progressivo adeguamento. Ma per l’Austria, ad esempio, la richiesta suona come un inammissibile sopruso. Che dovrebbe dire, allora, il metalmeccanico di Wolfsburg chiamato a tappare con le sue tasse le falle di paesi dove si va in pensione prima dei 60?

Poi c’è la disastrata Irlanda che si è dissanguata per tenere in vita le sue maggiori banche dalle tasche bucate, salvo poi ricorrere a sua volta alla rete di protezione europea: ha fatto subito sapere che di armonizzare le pressioni fiscali sulle imprese non se ne parla. Si tiene ben stretta la sua tassazione al 12,5 per cento che in passato le ha garantito l’arrivo di cospicui capitali stranieri. L’Italia in questa primissima fase di discussione è rimasta muta. Per il nostro paese il dossier più scottante si aprirà quando si porranno sul tappeto modalità e obiettivi di riduzione dell’indebitamento superiore al 60 per cento del Pil. Se, come proposto dall’asse franco-tedesco, la riduzione annua dovesse ammontare a un ventesimo dell’eccedenza di debito, per l’Italia si tratterebbe di rimborsare ogni anno importi pari al 3 per cento del Pil (una cinquantina di miliardi di euro).

Ogni paese cerca di portare acqua al suo mulino, è inevitabile. Ma giocare al “tutti contro la prepotente Germania” non ci porta verso la migliore soluzione della pesante eredità lasciata dalla crisi economica (ammesso che ci abbia lasciati). Bisogna chiederci se il vero dato nuovo è che l’elefante tedesco sta imparando a volare, alla Dumbo, oppure il fatto che continui a barrire sguaiatamente e aggressivamente. Invece che puntare su questi aspetti comportamentali, tutto sommato epifenomeni a cui ormai dovremmo essere abituati, i paesi dell’Unione, tutti, dovrebbero raccogliere il guanto della sfida lanciato da Berlino. Senza accettare programmi chiavi in mano, a scatola chiusa, i membri della Ue debbono approfittare del fatto che il convitato più grosso ha messo da parte le sue pregiudiziali e cominciare a costruire una politica economica comune, una disciplina e un rigore senza i quali non si può andare molto lontano, come dimostrano gli avvenimenti di questi ultimi anni. Invece di vedere in ogni proposta tedesca velleità di “Neue Ordnung” di nazista memoria, iniziare a costruire con la ricca e disciplinata Germania un “nuovo ordine” economico dopo il caos che la crisi finanziaria internazionale ha messo in luce e che sotto sotto permane, solo velato da una ripresina all’insegna di debiti pubblici sempre più ingenti.

P.S. Stavo finendo di scrivere queste note quando è apparso sul “Corriere” (13 febbraio) un lungo articolo di Claudio Magris. Il grande scrittore e saggista commentava da par suo la nuova fase della politica tedesca e sosteneva tra l’altro: “Ora Angela Merkel, persuasa che nulla e neanche il mercato possa funzionare senza regole, ne detta alcune ben precise relative alla competitività e alla stabilità… In questo momento la Germania è, in Europa, il paese leader. Danilo Taino osserva acutamente che la Germania sta lentamente abbandonando le remore legate al complesso di colpa per l’atrocità nazista e guarda all’Europa non più quale legittimazione che le consente di partecipare al congresso degli Stati democratici, bensì quale casa comune in cui assumere un ruolo politico rilevante”. Sempre gigante economico, dunque, ma mai più nano politico.

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