Giornalisti e previsioni smentite dalla realtà, i soloni dell’assolutamente certo messi alla berlina da Antonello Piroso.
In questo articolo sulla Verità, Antonello Piroso prende per il naso alcuni personaggi famosi del giornalismo e della tv, da Paolo Mieli a Enrico Mentana, da Marco Travaglio a Carlo De Benedetti.
“Sono due o tre sere che ti avrei dato la stessa risposta, l’esito a mio avviso è scontato”. Apperò.
E in virtù di quale riflessione? “Guardo queste cose dall’alto, come se vivessi in un altro paese, senza seguire nevroticamente il minuto per minuto, e mi sembra che è la cosa che ha più senso, e più passa il tempo e più me ne convinco”.
Sì, vabbe’, ma cioè? Quale “cosa”? Per caso il nome del prossimo Capo dello Stato? Esatto.
Che quindi sarà…
“Mario Draghi”.
E difatti.
Esibirsi in una granitica previsione a 48 ore dal fischio finale dimostra una fiducia nelle proprie facoltà divinatorie che in pochi possono permettersi.
Paolo Mieli può. È lui il Branko(lo) dei giornalisti di cui sopra, ospite in tv su La7 giovedì sera.
Svarioni di giornalisti su cui ha maramaldeggiato Augusto Minzolini, direttore de Il Giornale
“Giorni fa ho sentito Mario Calabresi (ex direttore di Repubblica, nda) e Paolo Mieli dire in coro: il prossimo Presidente è Draghi, sicuro. A quanto pare il mago Otelma ci azzecca di più. Succede quando si scambiano desideri per dati della realtà”.
Che è ciò che succede a Minzolini quando legge i dati di vendita del quotidiano che dirige, ma non satireggiamo troppo, ché il tema è altro, e ben più “alto”.
Ovvero, la tendenza di alcune vacche sacre -absit inuria verbis- del giornalismo italico, cui io “non sono degno neppure di slegare i lacci dei sandali” (la citazione è dai Vangeli), a emettere sentenze con il timbro della inappellabilità.
Intendiamoci: alzi la mano chi non ha mai preso una topica. Ci caschiamo tutti, prima o poi, e i politici in questo fanno scuola.
Ma si sa: loro, sbilanciandosi tra promesse e profezie, sono abituati a pensare una cosa, dirne una seconda, farne una terza, per poi giurare di essere stati fraintesi.
Noi iene giornalisti dattilografe non potremmo però evitare?
Mieli è pure recidivo fra i giornalisti. L’8 gennaio 2018, a due mesi dalle elezioni politiche, ospite su La7 con Matteo Renzi, a precisa domanda su come sarebbe andata per il Pd, di cui il Toscano del Grillo (“io so’ io, e voi etc”) era allora segretario, replicò: “Non sono catastrofista, è messo meglio di quanto lo danno i sondaggi, dovessi scommettere direi che i risultati saranno migliori”.
Va bene, però dimmi la morale, pardon: la percentuale, lo incalzò maligna Lilli Gruber, e lui: “Il 25% sarebbe un voto clamoroso” (la regia, perfida, staccò sulla faccia di Renzi tra il perplesso e lo spiazzato). E difatti. Così clamoroso che, per la cronaca, il Pd andò peggio del peggior sondaggio di quei mesi, la rilevazione di Tecnè che all’inizio dell’anno lo dava al 20.7%, inchiodando nelle urne al 18.8%.
Anche a Enrico Mentana è toccato inciampare in un errore di valutazione.
Mentre si occupava del romanzo Quirinale, in un fuori onda durante un servizio su Giuseppe Conte si è lasciato andare: “È quello che se la sta giocando meglio di tutti”.
Per completezza va aggiunto che aveva premesso: “Non l’avrei mai detto”.
Che è stata la mia reazione quando ho sentito quel giudizio: ‘a Enri’, ma che stai a di’? Mai avrei pensato che tu potessi anche solo lontanamente immaginarlo, un Conte che contasse.
Tant’è che quando Giuseppi si è esposto su un possibile voto del M5S a favore di Draghi al Quirinale, la nemesi ha voluto che la telefonata di smentita di Beppe Grillo, “ipotesi che non esiste”, sia arrivata proprio a Mentana mentre era in onda.
Da Grillo all’aedo dei grillonzi -e “vedova di Conte”- Marco Travaglio è un attimo.
Ecco come, su La7 (e dove sennò?, dicembre 2020), pontificava con la consueta aria di umile superiorità: “Il governo Draghi? Una simpatica barzelletta. A me non risulta lui voglia fare il premier. E poi non esiste una maggioranza pronta a sostenerlo. Il M5s non lo voterebbe, la Lega non lo voterebbe. Lo chiamino, così scopriranno la sua indisponibilità e la pianteranno con ‘sta storia”.
E difatti (messo peggio di lui, sul tema, ci fu solo Carlo De Benedetti -non è un giornalista, ok, ma è pur sempre un editore, prima di Repubblica e Espresso, oggi di Domani- che ancora su La7 , settembre 2020, pronosticava: “Escludo nel modo più categorico, conoscendolo bene, che Draghi possa fare il presidente del consiglio”).
Quando non giochiamo al “gràttati e, magari, vinci” a casa nostra, ci avventuriamo a commentare il voto degli altri: “La campagna elettorale di Donald Trump è ufficialmente finita stanotte, al terzo dibattito con la rivale Hillary Clinton” era il fulminante incipit di un post su Facebook a due settimane dal voto del 2016 (se non lo trovate, il sito Dagospia lo ha in archivio) firmato da Gianni Riotta – già direttore del Tg1 e de Il Sole 24Ore, uno dei 39 esperti selezionati per il “Gruppo di alto livello contro la disinformazione”, promosso dalla Commissione europea per combattere le fake news – che condiva il de profundis con un verdetto apodittico: “Hillary vincerà”. E difatti.
Per questo, fossi in Giorgia Meloni, sarei in allarme
Davanti al tweet di Vittorio Feltri, a rielezione di Sergio Mattarella ufficializzata: “Il centrodestra si è sfasciato. Un suicidio. L’unica che si salva è Giorgia Meloni, grande donna che non si piega e non si spezza. Alle prossime elezioni il suo sarà il primo partito”, ringrazierei per la stima (reciproca: lei lo ha candidato nel 2021 a Milano con un’esternazione tracimante entusiasmo: “Sono estremamente fiera di annunciare che il direttore Vittorio Feltri ha deciso di iscriversi a Fratelli d’Italia e che lo abbiamo convinto a guidare la lista di FdI alle prossime elezioni amministrative”).
Ma terrei a portata di mano un corno napoletano.
- da La Verità