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Lucio Dalla, lo “zingaro libero” morto a Montreux, il paese dei poeti

di Maria Elena Perrero |1 Marzo 2012 20:03

Lucio Dalla (Foto LaPresse)

MONTREUX (SVIZZERA) – Lucio Dalla è morto. L’annuncio ha spiazzato tutti, italiani e non. Arrivato, come uno scherzo del destino, a pochi giorni dal sessantanovesimo compleanno dell’artista, il 4 marzo.

Dalla se n’è andato con la delicata spregiudicatezza delle sue canzoni in una mattina di primavera in una cittadina sul lago di Ginevra, sulla “riviera svizzera”, celebre per il suo Jazz Festival e per altri due autori eccellenti che hanno esalato qui il loro ultimo respiro, Rainer Maria Rilke e Vladimir Nabokov.

Lavoratore instancabile, Dalla è morto la mattina dopo aver dato un concerto, pochi giorni dopo essersi esibito al Festival di Sanremo insieme a Pierdavide Carone. Per la sesta volta sul palco dell’Ariston, anche se non in veste di concorrente, il cantautore bolognese portò quella “Nanì” che raccontava di una prostituta e di quei “venti euro di verginità” in un “mondo senza eroi”.

Ma di palchi, Lucio, ne aveva visti tanti. Il primo nel 1960, quando, a diciassette anni, partecipò al Primo festival europeo del Jazz, ad Antibes, in Francia. Lui, calrinettista, sassofonista, tastierista con una formazione jazz decise di fare da solo nel 1964, a 21 anni, con la malinconica “Lei non è per me”.  Sul filo della malinconia mai arrendevole è anche “Bisogna sapere perdere”, portata a Sanremo con Shel Shapiro.

La vena del ricordo viene fuori con “4 marzo 1943” (la sua data di nascita), in cui sembra rievocare la sua vita di orfano di padre dall’età di sette anni. Una canzone che fece discutere fino ad essere censurata dalla Rai per quel “e anche adesso che bestemmio e bevo vino, per ladri e puttane sono Gesù Bambino” che divenne “E ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino per i ladri e le signore sono Gesù bambino”.

Poi venne la dichiarazione d’amore per la sua Bologna, quella “Piazza Grande” dove Lucio cantava “avrei bisogno di carezze anch’io”. Tornato all’impegno cantò “La casa in riva al mare” (“dalla sua cella lui vedeva solo il mare
ed una casa bianca in mezzo al blu”), e “Il gigante e la bambina”, sul tema della pedofilia: “Il gigante ? un giardiniere. La bambina ? come un fiore, che gli stringe forte il cuore con le tenere radici”.

Dopo Dalla cantò la più leggera “Nuvolari”, le celebri “Com’è profondo il mare” e “Caruso”: “Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso che con un po’ di trucco e con la mimica puoi diventare un altro ma due occhi che ti guardano così vicini e veri ti fan scordare le parole, confondono i pensieri”. Malinconia più allegra nelle canzoni dagli anni Novanta in poi, da “Attenti al lupo” a “Ciao”.

Sembrava aver preso una china più leggera, anche se quella malinconia di fondo restava sempre. “E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande”, cantava. E invece se n’è andato quand’era lontano dalla sua Bologna. Del resto lo diceva: “Se io fossi un angelo (..) chiaro che volerei, zingaro libero, tutto il mondo girerei”.  Ma adesso è davvero “Zingaro”, “vento nel vento, voglio essere io, senza confini e pareti”.

 

 

 

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