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Tre Allegri Ragazzi Morti senza maschere (forse). L’INTERVISTA a Enrico Molteni

di Gianluca Pace |1 Marzo 2019 9:55

I Tre Allegri Ragazzi Morti, TARM, è un gruppo nato a Pordenone nel 1994. Del gruppo fanno parte Davide Toffolo (voce e chitarra), Enrico Molteni (basso) e Luca Masseroni (batteria e voce). Il nome della band deriva da “Cinque allegri ragazzi morti”, un romanzo a fumetti del cantante Davide Toffolo.

I Tre Allegri Ragazzi Morti, TARM, è un gruppo nato a Pordenone nel 1994. Del gruppo fanno parte Davide Toffolo (voce e chitarra), Enrico Molteni (basso) e Luca Masseroni (batteria e voce). Il nome della band deriva da “Cinque allegri ragazzi morti”, un romanzo a fumetti del cantante Davide Toffolo.

ROMA – I Tre Allegri Ragazzi Morti sono nati e cresciuti a Pordenone. Vivete ancora lì? “Non viviamo più lì – mi risponde Enrico Molteni – Io ora sono a Milano. Davide vive a Roma. L’unico che è ancora lì è Luca”. Com’è cambiata la città negli anni? “La domanda è difficile. Ci sono stati dei cambiamenti e questo è sicuro. Altre cose invece sono rimaste sempre uguali. Sicuramente ora in città ci sono meno locali rispetto a una volta per fare musica”. Pordenone, negli anni’70, grazie anche alla vicina base americana di Aviano, era un avamposto della musica punk in Italia. “Sicuramente quel periodo storico, che poi ha preso il nome di ‘The Great Complotto’, ha seminato molto nel territorio di Pordenone”.

I “Clash” sono uno dei punti di riferimento per la vostra musica? “Beh, direi sicuramente sì. Io li metto di certo nella mia top ten personale. E’ un gruppo che, molto prima di altri, ha fatto capire a tutti come poter fare punk, come poter fare musica etnica, come poter essere un gruppo politico mantenendo comunque un aspetto discografico forte. Sicuramente sono un gruppo importante per noi”. Come i “Clash” anche voi state cercando una vostra originalità… “Beh, un pochino sì. Qualche legame c’è. Così come con i ‘Police’. Non sono gruppi che abbiamo cercato di emulare ma sicuramente quello che ascolti entra dentro di te e alla fine viene fuori. Sicuramente l’influenza è grossa”.

Come ti sei avvicinato al basso? “Un po’ come tutti i bassisti: c’erano troppi chitarristi nelle band”. E qui ride. Dal primo disco sono passati ormai più di vent’anni. Che ricordi hai del primo disco? “Eh… E’ passato tanto tempo. Alcuni ricordi sono ancora intatti come se fosse ieri. Altre cose, invece, sono svanite completamente”.

Di sicuro sono rimaste le maschere. “La tradizione di usare le maschere – spiegava tempo fa Davide Toffolo – è iniziata subito dopo aver fatto il contratto con una major che ci aveva richiesto di essere riconoscibili per girare i nostri video e apparire in Tv. Successivamente la maschera è diventata il simbolo di un’identità collettiva poiché non siamo solo noi sul palco ad indossarla ma tutte le persone nella società”. Con il tempo è cambiato il senso e il significato del loro uso o è rimasto lo stesso? “E’ rimasto sempre quello – racconta – Col tempo, forse, lo abbiamo capito meglio. La prima intenzione, per quanto istintiva, aveva con sé tutte le motivazioni che si sono sviluppate nel tempo”.

Nel 2000 avete fondato anche un’etichetta, “La Tempesta Dischi”. Com’è cambiata la cosiddetta scena italiana negli anni? “Beh, è cambiato moltissimo. C’è stata una vera e propria rivoluzione nel modo in cui si ascolta la musica: si è passati dai supporti alla musica liquida. C’è stato, inoltre, anche un bel ricambio di abitudini. Quando ero ragazzino la musica che ascoltavano i giovani era principalmente straniera invece ora è italiana. Adesso c’è un po’ più di mercato e ci sono più figure professionali. C’è, di sicuro, un circuito più grande. I cambiamenti sono tanti. Poi alla fine si tratterà sempre di suonare una canzone davanti a delle persone. Era così prima e immagino sarà così anche poi. Il contesto, di sicuro, ora è diverso”.

Nel 2008 avete partecipato anche alla colonna sonora di “Come Dio comanda” insieme ai “Mokadelic”. E’ una esperienza che si potrebbe ripetere in futuro? “Abbiamo fatto una canzone per quel film su richiesta di Gabriele Salvatores. Diciamo che non abbiamo dovuto curare proprio la musica del film. Abbiamo scritto una canzone seguendo alcune indicazioni. Sicuramente è stata una cosa bella e interessante. Direi un po’ a metà strada tra una colonna sonora e l’inserire semplicemente una nostra canzone in un film. Non ci sono state più occasioni ma sicuramente sarebbe bello farlo ancora. Anche se forse non rientra proprio nelle nostre caratteristiche. Noi abbiamo già un nostro immaginario ma sarebbe comunque interessante. E’ una cosa che ci affascina molto”.

Su “YouTube” un fan ha scritto: “Vi seguo da quando ero al liceo. Sono cresciuto con voi e ora la vostra musica è cambiata così come sono cambiato io”. Com’è cambiato negli anni il rapporto con i fan? “Ti dico solo che ora al tour la domanda più frequente è se nei posti dove suoniamo possono entrare anche i bambini – e qui ride – A chiedercelo sono i ragazzi che ci seguivano anni fa e che ora sono diventati adulti e genitori”.

“Questo – continua – per dire che il tempo passa per tutti ed è bello che ci sia un legame che si mantiene negli anni. Un gruppo che magari ascoltavi quando facevi l’università e che ancora adesso vai a vedere: tutto questo resta una cosa bella. Capita anche a me con i gruppi che mi piacciono. E’ una cosa che fa piacere. Ora vengono anche bambini, ragazzini, adulti e persone anziane. E questa è una cosa bella della musica: il rivolgersi a tutti e non avere un’unica fascia di età a cui rivolgersi”.

“Il Sindacato dei Sogni”, la copertina del nuovo album dei “Tre Allegri Ragazzi Morti”

Il 25 gennaio è uscito il nuovo album “Il Sindacato dei Sogni”. Da dove nasce il titolo? “E’ un titolo scippato a un gruppo americano che si chiamava ‘The Dream Syndicate’. Gruppo che, tra l’altro, aveva scelto questo nome prendendolo da un altro progetto. E’ l’idea di giocare sul contrasto tra la struttura, il sindacato, e i sogni. E’, in fondo, come se la musica fosse un posto dove andare a parlare dei propri diritti”.

In copertina ci sono tre gattini di ceramica con la vostre maschere… “Ci è sembrata una cosa abbastanza spiritosa e divertente. I gattini si sa… diventano virali facilmente”. I gattini portano i nomi di tre canzoni dell’album: “Bengala”, “Calamita” e “Caramella”. Ma chi è tra voi tre “Bengala”, “Calamita” e “Caramella”? “Siamo noi tre… ma non è che abbiamo quei nomi lì…” e qui ride. “Sicuramente c’è il colore degli occhi che ci identifica. Ma la scelta è casuale. Il colore degli occhi l’ho scelto io, ma casualmente, mentre scaricavo le canzoni. Senza una vera e propria logica”.

L’album è stato registrato a Montello, in provincia di Treviso. Una grande casa di pietra vicino al bosco. “Lì abbiamo passato dei giorni veramente belli – mi spiega – ed è stato fatto un po’ alla vecchia: tutti insieme in uno studio dove mangiavamo, dormivamo e suonavamo tutto il giorno. Una cosa che ci ha permesso di riunire le nostre forze per il disco”.

Quest’album segna, come “Primitivi del futuro”, un punto di svolta per voi. Quanto è difficile trovare una propria strada originale nel mondo della musica? “Noi abbiamo trovato un nostro suono. Una nostra idea di gruppo. Questo sicuro. E lo abbiamo fatto fin dall’inizio. Ma la ricerca è molto complessa. A noi è venuto tutto semplice. Ci siamo messi a suonare ed è venuto fuori il nostro suono. Se non ce l’hai però, trovare questa originalità è veramente difficile. Dipende poi anche dalle persone che compongono il gruppo. E’ bello lasciarsi andare e fare in modo che quello che hai dentro di te venga fuori”.

Questo, in fondo, è l’unico modo per essere originali… “Sì, è cosi. Questo è davvero l’unico modo per fare qualcosa di originale e non rischiare di diventare derivativi”. Per l’album avete utilizzato qualche strumento nuovo? “Completamenti nuovi direi di no. La fisarmonica l’avevamo già usata. La fender anche. Ci sono tanti colori diversi: c’è un sassofono, un fender rhodes in qualche brano, ci sono i sintetizzatori. Un po’ di strumenti… speciali ma niente che non avevamo già usato prima”.

Per il testo di “Caramella” vi siete ispirati al poeta livornese Giorgio Caproni. Com’è nata l’idea? “Qui devi chiedere a Davide. Io non ne ho idea” e scoppia a ridere.

In “Calamita”, un canzone che parla di Pordenone, invece citate Pasolini… “Sì – mi spiega – lui chiamava Monte Cavallo Fujiyama. Sicuramente è una delle canzoni più difficili da capire anche se è molto descrittiva. La canzone, in fondo, descrive tutto quello c’è a Pordenone”. Invece com’è nata la collaborazione con Francesco Bearzatti? “Ci piaceva l’idea di un sax selvaggio. Noi lo conosciamo da tempo. Lui, a dir la verità, ha regstrato il sax su tutto il brano e noi poi abbiamo scelto alcune parti. La collaborazione è nata in modo semplice. Poi lui è di Pordenone e quindi c’è questo legame cittadino”.

Nel video di “Bengala” c’è questo immaginario, sempre con i gatti protagonisti, della natività. “Sì abbiamo traslato la natività nel nostro mondo. Abbiamo messo diversi riferimenti. Per esempio al posto dell’asinello c’è la vespa. E’ tutto un po’ traslato in un mondo fantastico. Anche questa è stata un’idea di Davide”.

“Lui mi raccontava queste cose e magari all’inizio neanche riuscivo a capirle – scoppia a ridere – ma devo dire che alla fine il video è venuto fuori veramente bene ed è molto divertente”.

“Una ceramica italiana persa in California” è la canzone dell’album a cui siete più legati? “No, però sicuramente è quella su cui ci siamo sbilanciati di più. Sicuramente è la più particolare”. La canzone rappresenta anche il vostro percorso futuro? “No, no. Non abbiamo la minima idea del nostro futuro – e ride ancora – Non l’abbiamo messa per ultima per dire: ecco, adesso nel futuro faremo questo. Non abbiamo una visione così in prospettiva”.

Piccolo viaggio ai confini della musica italiana. LE INTERVISTE.

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