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Bavaglio intercettazioni. Solo il giudice può dire si può, i giornalisti devono pubblicare sempre

di Marco Benedetto |30 Marzo 2015 8:55

Solo il giudice, scrive Antonio Buttazzo, può dire se si può diffondere una intercettazione, ma i giornalisti devono pubblicare sempre

Ci risiamo. La stretta di Matteo Renzi sulle intercettazioni tradisce più la paura di finire sui giornali di tutta la classe politica che non quella di porre un freno all’abuso di pubblicazioni di notizie che non hanno rilievo penale.
Il Nuovo Centro Destra di Alfano & co. va in piazza con lo slogan “difendere le vite degli altri” ma il dubbio è che sia solo della loro che si preoccupano.
La fiammata censoria nasce dalla vicenda di Maurizio Lupi, ministro dimessosi a seguito della inchiesta fiorentina contro la nuova cricca dei lavori pubblici.
Il ministro non è risultato indagato, tuttavia una serie di captazioni telefoniche facevano emergere un inquietante quadro di trasversalità quanto meno ambigue tra Ercole Incalza, potentissimo plenipotenziario dei politici da 25 anni, nei grandi lavori pubblici, i suoi collaboratori e Lupi stesso con suo figlio, destinatario quest’ultimo di regali e favori.

Lupi nel dimettersi si è difeso ribadendo la sua estraneità al malaffare dei vertici del Ministero che governava, ritenendo inoltre deplorevoli le critiche rivolte alla sua famiglia ed in special modo a quel suo figliolo cosi bravo a laurearsi con 110 e lode al Politecnico di Milano dimenticando però che, come ammoniva Plutarco, “la moglie di Cesare non deve solo essere onesta ma anche sembrarlo”.

Ed infatti il problema è proprio questo, vi è o no un interesse pubblico a conoscere fatti che pur non avendo rilevanza penale hanno importanza dal punto di vista più generale della verifica e del controllo che la stampa deve esercitare su chi esercita poteri pubblici?
In altri termini, ci si chiede se l’opinione pubblica ha o meno il diritto di conoscere, oltre al linguaggio sguaiato del devotissimo ministro al telefono, anche dei suoi rapporti con il disinvolto management del suo ministero.
Negarlo sembra un azzardo, la funzione della stampa è proprio quella di esercitare un controllo politico sui politici, a quello giudiziario ci pensano i giudici ai quali gli organi di informazione di certo non possono sostituirsi.
Il dubbio è che la contropartita costretta a pagare da Renzi al partner di governo Angelino Alfano, che ha sacrificato uno dei suoi ministri (e soprattutto dei ministeri) più illustri, sia stata l’introduzione di questa ulteriore stretta alla libertà di informazione, temendo con ogni probabilità che quella che loro definiscono “gogna mediatica” abbia a ripetersi con l’approssimarsi dei processi per gli scandali sulle opere pubbliche attuali e futuri.
Strette censorie quelle paventate del governo, che dovrebbero peraltro realizzarsi attraverso un macchinoso processo teso ad escludere che sia il Giudice a decidere la rilevanza penale di una conversazione oppure ad escluderla, vietandone la pubblicazione sotto comminatoria di sanzione.
Un sistema volto alla pesante intromissione della politica nel processo penale, peraltro del tutto inutile poiché è destinato al fallimento lo sforzo di definire normativamente (e quindi per atto politico) la rilevanza penale di una conversazione intercettata, essendo il materiale istruttorio raccolto nel corso di una indagine materia fluida, difficilmente interpretabile in senso univoco ed incontrovertibile, come imporrebbe una valutazione fondata su di una norma di legge.
E dal punto di vista della politico-criminale, questa scelta sarebbe probabilmente un grande errore.

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