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Marchionne, Fabbrica Italia e la grande illusione

di Marco Benedetto |22 Dicembre 2010 20:16

Sergio Marchionne, ad di Fiat

“Senza l’Italia, la Fiat farebbe meglio”. Sergio Marchionne, in una breve pausa tra un aereo e l’altro, dimostra grandi capacità di sintesi. Ma ora qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi se l’Italia, e la Fiat, potrebbero fare meglio senza Marchionne e di un abbraccio che rischia di trasformarsi in una stretta mortale.

La totale assenza di critica che ha caratterizzato i suoi primi sei anni alla Fiat sembra aver generato un mostro capace di passare dalla bonaria inaugurazione di asili nido a Mirafiori a spietato cacciatore di pause lavorative. Il sipario si alza sulla grande illusione della “fabbrica Italia” cui farà seguito una grande delusione da tempo annunciata. Rimarranno le pagine pubblicitarie che la annunciavano che fanno il paio con quelle che, rovesciando spudoratamente la realtà, inneggiavano ad una Fiat finalmente libera dalle catene dell’accordo con General Motors, lo stesso accordo che aveva consentito a Marchionne di recuperare il capitale necessario per procedere al riavviamento delle fabbriche.

Ma davvero qualcuno può credere allo spostamento della produzione della Panda, quella nuova che nel frattempo è slittata al 2012, dal virtuoso stabilimento polacco di Tichy allo “scapestrato impianto” di Pomigliano? Allo sconcerto che aveva colpito i più stretti collaboratori di Sergio Marchionne al momento dell’annuncio del trasferimento, aveva fatto seguito la certezza che dietro quella apparente apertura all’auto made in Italy si celasse, ancora ben nascosto nel cilindro, uno dei tanti conigli che l’amministratore delegato della Fiat è sempre pronto a far comparire e guadagnare così tempo prezioso.

Approfittando di quell’effetto sorpresa che insieme con la reiterazione di annunci, mai veramente onorati, è alla base della sua strategia di comunicazione. Perché, e questo va riconosciuto a suo esclusivo merito, Sergio Marchionne è riuscito nel compito quasi impossibile di portare al successo una fabbrica di automobili che non spreca denaro per fare automobili. Una strategia quasi obbligata dopo la mancata acquisizione di Opel che avrebbe dovuto ripopolare quel territorio ormai disertificato rappresentato dalla attuale gamma prodotto.

Ora le parole di Marchionne fanno chiarezza. La Fiat farebbe meglio senza l’Italia e quindi, cavalcando quei sillogismi che tanto gli piacciono, la Fiat farebbe meglio senza l’auto, almeno quella prodotta negli stabilimenti in Italia. Perché il problema della produttività è solo un paravento. Ha poco senso sbandierare l’efficienza di Tichy o di Belo Horizonte rispetto a Mirafiori o Pomigliano. I primi producono auto che si vendono (Panda, 500) in paesi dove è ancora presente una redditizia domanda di prima motorizzazione, i secondi quelle che non si vendono, che sono la grande maggioranza. Dalla Punto Evo, alla Alfa Romeo 159, dalla Lancia Delta alla Fiat Croma.

La produttività non è un fine ma un mezzo, volto a minimizzare i costi di modelli che si vendono però soprattutto in funzione della loro qualità e del loro appeal sul mercato. Peccato che siano proprio i modelli che non si vendono gli unici che potrebbero assicurare la sopravvivenza dell’auto in Italia. Panda e 500 appartengono ad un segmento di mercato per il quale quello che conta è il prezzo di listino. Che dipende da costi di produzione che non potranno mai raggiungere quelli di costruttori coreani, rumeni, serbi o polacchi. In Italia la sfida dovrebbe esere quella di realizzare prodotti i cui contenuti determinino un elevato controvalore.

E quindi, visto che di questi tempi l’esempio della Germania è d’attualità, seguire la strada della Volkswagen che la Golf la produce in casa nonostante costi di produzione e produttività non lontani da quelli italiani e per di più con il sindacato che si affianca alla gestione. Tutto questo non impedisce alla berlina media della Volkswgen di vendere 70.000 unità al mese in Europa contro le poco più di 4000 Bravo. E a Ferdinand Piech di pensare all’acquisizione della Alfa Romeo ben conscio che il malandato marchio del biscione, 0.8% di quota sul mercato europeo, sia ancora in grado di recitare un ruolo di primo piano nel settore delle vetture ad alte prestazioni. Un segmento importante anche nell’attacco ai mercati emergenti dove, almeno in una prima fase, sono i modelli alti di gamma a fere da apripista.

A Shanghai un grande cartello luminoso di fronte all’entrata dell’expo ce lo ricorda: un milione di Audi vendute da quando Volkswagen è sul mercato. E sono 14 le fabbriche della marca tedesca in territorio cinese. La Fiat che di Cina parla spesso per legittimare i suoi interventi sul contenimento dei costi, purtroppo, è assente. Ma allora qual è il punto di caduta della strategia di Marchionne, quella che ha affermato con chiarezza esemplare: la Fiat farebbe meglio senza l’Italia. E quindi una Fiat Auto ridimensionata nell’offerta e nei costi da accorpare (assorbire?) in Chrysler un po’ come la Opel rispetto alla General Motors. Marginalmente presente in Europa e forte in Brasile, Turchia e, forse in India dove però il socio Tata sembra giocare per conto suo.

Chrysler terra promessa che in futuro potrebbe diventare a sua volta terra di promesse mancate. Per ora il clima è ancora quello di un viaggio di nozze. Con Obama che non lesina complimenti e con il sindacato compatto al fianco di un Marchionne che solo lì si sente a casa sua. L’aggressività la lascia a casa perché deve pur ricordare che i soldi del tentativo di recupero della Chrysler si basa sui soldi dell’amministrazione e che il sindacato detiene il 60% delle azioni ordinarie della casa americana.

Un’ultima domanda a Marchionne: dove sarebbe lui se non ci fosse questa tanto deprecata Fiat italiana a fargli da sgabello? Lui si comporta come il fondatore, certamente ne è l’ultimo, per ora, salvatore: ma il presente si costruisce sul passato.

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