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Genova. Alluvioni: si poteva evitare, torrenti sporchi, nessun allarme

di Marco Benedetto |5 Novembre 2011 11:47

Sono passati esattamente quarant’anni da quell’ottobre del 1970 quando il Bisagno e altri torrenti, che scendono al mare nelle brevi ripide e tortuose valli ai due lati di Genova, strariparono. ( Oggi il burocratese ha imposto esondare, termine che a me, come il confratello evacuare, suona osceno) .

Di solito il Bisagno e gli altri torrenti sono in secca e così sono stati per questi 40 anni. Ma quando piove, e da queste parti se piove e’ davvero “a zefunno”, sono guai.

Non sono, come amano dire i politici, eventi imprevedibili. Sono più che prevedibili. Magari non si sa quando, possono passarne venti di anni oppure 40, ma, inesorabile come la morte, l’alluvione arriva.

Quella che sta riempendo di lacrime gli occhi dei telespettatori italiani in questi primi giorni di novembre non è la prima e, sappiamo già, non sarà l’ultima.

Nell’arco della mia ancor breve vita ricordo l’alluvione del ’53, che fu tanto violenta da fare saltare la copertura dell’ultimo tratto del Bisagno fatta nell’ambito della pregevole e ideologicamente vituperata sistemazione del levante di Genova, tra le due guerre mondiali.

E poi quella del 1970, scandita da oltre 20 morti, tra Genova centro e gli ex comuni della costa limitrofa, ciascuno col suo torrente straripato.

Sono passati 41 anni esatti da questa ultima, come ne erano passati 17 dalla precedente. Avemmo, come avremo presto, funerali di Stato, decine di corone di fiori, una nuova alluvione di lacrime, comizi, proclami, disperazione, domande stupide del tipo “ma come può succedere”, la polemica sul sindaco che si deve dimettere perché non ha chiuso le scuole.

In realtà c’è di peggio, perché tutti a Genova si aspettavano il disastro. Molta gente comune, letti il Secolo XIX e le notizie su internet, ha fatto provviste come per una guerra atomica e si è chiusa in casa, aspettando la fine del diluvio. Le Autorità tutte, quelle con la A maiuscola, non hanno pensato, tra loro, a prendere un centinaio di agenti, tra tutte le polizie che vivono tra noi e lottano tra loro, comunale, provinciale, nazionali e poi ancora volontari pagati e strapagati, e mandarli non al fondovalle, ma in cima, sulla displuviale o comunque dove si formano i vari torrenti. Non stiamo parlando del Nilo, del Mississippi e nemmeno del Po o dell’Adige, ma semplicemente del Bisagno, pochi chilometri, meno di un’ora di macchina dalla foce alla sorgente.

Solo nella Bibbia l’acqua si apre e si richiude, oggi persino gli tsunami vengono avvistati. Una piena del Bisagno, dopo l’allarme lanciato cinque giorni prima, andava messa nel conto. Rileggiamo cosa c’era scritto sul sito del Secolo XIX la sera del 30 ottobre. La Protezione civile  raccomandava, “soprattutto a coloro che abitano nelle zone vicine ad aree franose su tutto il territorio cittadino e anche nelle vicinanze di rivi, di restare costantemente informati, di prestare la massima attenzione alle comunicazioni diramate dal Comitato, di mantenere comportamenti estremamente prudenti, e di raggiungere luoghi sicuri alla minima avvisaglia di pericolo. […] I parchi e i giardini resteranno chiusi a causa del forte vento. Da domani, alcune zone dei cimiteri di Staglieno, Torbella, e Castagna potrebbero essere interdette al pubblico, circostanza che verrà comunicata con apposita segnaletica”.

Lo hanno fatto, perché non lo hanno fatto? perché la gente non gli ha dato retta?

Tutto si può dire ma non che l’evento non fosse prevedibile, è una bugia troppo bieca.

Resta il dubbio che mai ci saranno risposte e che, se ci saranno, non ne resterà traccia. Su un punto non esiste dubbio: che poi tutto rientrerà nella routine del disinteresse.

In questi 41 anni a Genova hanno fatto un acquario, costruito un inutile tendone di cemento su un molo del porto, buttato giù un monte, sì un monte, quello di San Benigno, e costruito al suo posto un grattacielo. Ma i soldi per mandare due ruspe a pulire il greto del Bisagno e degli altri torrenti non li hanno trovati.

Ho recuperato un articolo che scrissi per la Stampa nel1971, nell’anniversario della alluvione. Rileggerlo mi ha dato un brivido: da allora nulla è cambiato, forse, ma non sono in grado di accertarlo, sono riusciti in 40 anni a fare riconoscere dallo Stato l’esistenza giuridica del Bisagno. Per il resto,zero.

Ah, sì, c’era, come c’è ancora, il problema delle competenze, compete allo Stato, alla Regione, alla Provincia, al Comune. Ma quando hanno dovuto trovare i soldi per opere di regime, allora l’accordo c’è stato, le difficoltà burocratiche si sono superate. Il problema è che i problemi della micro industria, l’assetto del territorio attorno a un fiumiciattolo sono fatiche immense, richiedono ore di lavoro, studio, concentrazione, mentre il ritorno in termini elettorali e di visibilità è assai misero. Per non dire che raspare il fondo di un torrente non è glamour, non fa titoli sui giornali, non dà occasioni da foto, da comizi. Non si deve dire che non dovevano ristrutturare i magazzini del cotone, dare nuova vita a una parte di porto in abbandono. Ma nessuno mi leva dalla testa che la convergenza di interessi economici, politici e banalmente di vanagloria ha fatto preferire le opere edili a quelle di manutenzione idrica.

Ve lo vedete un politico che fa un discorso, sulla riva di quel torrente maledetto, dove d’inverno picchia un vento gelido che ben conoscono generazioni di calciatori dilettanti che la domenica si misurano su quei campetti rubati all’acqua.

Proprio qui è la origine della tragedia. La fame di spazio di Genova ha spinto, sempre, a utilizzare quel torrente quasi sempre secco come valvola di sfogo per quelle attività che non avrebbero mai remunerato, ai tempi della Repubblica come oggi, i capitali investiti. Una volta, alla Foce, c’era il lazzaretto, proprio dove ora sorgono i bei palazzi bianchi che guardano il mare e la Fiera.

Se alla mancanza di spazio aggiungete la incapacità di programmare e pianificare della burocrazia di oggi, ecco che avete la ricetta che spiega quasi tutti i disastri. Una piccola nota: prendersela con i politici lo faceva anche Totò; la vera casta sono i burocrati, i funzionari e gli impiegati della pubblica amministrazione, intoccabili, insindacabili, ingiudicabili.

In questi 41 anni, più volte sono passato per quel tratto di Val Bisagno che dalla Foce va al cimitero di Staglieno e all’autostrada, dominato dal carcere di Marassi e dallo stadio Ferraris. Ogni volta guardavo con una stretta al cuore il letto del Bisagno, notando che tutto era come 41 anni fa, forse un po’ peggio.

Anche se vengo da un’altra parte di Genova, sono legato alla Val Bisagno per i miei primi passi da giornalista, quando passavo le domeniche mattine ai bordi di quei campi di calcio per raccogliere in scarne cronache di poche righe più formazioni arbitro e marcatori, trattando come fossero Genoa o Sampdoria squadre che si chiamavano Gbc Canevello, Anpi Casassa, Molinello.

Nella mia memoria, l’alluvione del ’70, è più di un fatto di cronaca come tanti altri, perché la vissi da cronista, in diretta.

Dal finestrone dell’ufficio dell’Ansa in via De Amicis vidi arrivare l’acqua della piena attraverso l’angusta galleria che passa sotto la massicciata ferroviaria della stazione Brignole. L’acqua, uscita da quel piccolo tunnel con la forza di chissà quante atmosfere, invase tutta la grande piazza, entro nelle fondamenta del palazzo dove lavoravo e dove soprattutto si trovavano, allora, le rotative del quotidiano Il Secolo XIX, che non fu stampato per giorni.

Ricordo che guardai con distacco arrivare quell’acqua cattiva, violenta, che sommerse l’immensa piazza alberata, e, congiungendosi con l’onda più massiccia proveniente da un altro sottopassaggio più ampio in fondo a corso Sardegna, conquistò piazza della Vittoria, quella delle caravelle e dei bei palazzi di Piacentini, per arrivare fino al mare lasciando dietro di sé un miscuglio di fango e rami secchi.

La guardai senza emozione, perché oltre ogni capacità di emozione fu la scena e al tempo stesso remota, come un’invasione di marziani, qualcosa che mai avresti pensato sarebbe potuta accadere.

Mi misi alla macchina da scrivere e non me ne staccai per 72 ore di fila. Non c’era bar né ristorante aperto nella zona, mia moglie e mia sorella mi portarono panini e un polpettone da casa, in una zona risparmiata dallo straripamento del Bisagno.

Intanto il conto dei morti cresceva, il bilancio dei danni saliva. Si andò avanti così per un po’ di giorni, poi si rientrò nella normalità.

I genovesi superarono lo choc, si misero al lavoro, tutto tornò a funzionare. I genovesi sono mugugnosi ma non piagnoni.

Il 1970 fu l’anno in cui si avviò quella infernale macchina mangiasoldi di sottogoverno e sprechi che poi si rivelarono essere le Regioni. Quella ligure cominciò a vivere con mesi di ritardo, perché, come ricordò il primo presidente, nei giorni in cui era prevista la cerimonia inaugurale c’era stata, appunto, l’alluvione.

Ma se oggi parliamo di Genova sommersa nel 1970, dobbiamo ricordare che due anni prima c’era stato il Piemonte sommerso, e due anni prima ancora c’era stata l’alluvione di Firenze, di cui molti anche dei più giovani avranno visto, nei passaggi in tv o in dvd, un coté comico in un episodio di Amici miei.

Anni prima ancora c’era stata la tragedia del Polesine, che commosse l’Italia appena uscita dalla guerra, che avvolse nella “catena della solidarietà” quelle povera gente contadina nello slancio di un’Italia più povera ma forse più solidale, anche se da quel terribile autunno del 1951 il Polesine non si è più ripreso.

L’elenco di questo genere sciagure è lungo, risale nel tempo, è un pezzo della storia d’Italia, è una voce di Wikipedia. Ma non voglio fare un trattato. Voglio solo dire che se l’abbandono del Polesine fu facilitato dal biblico passaggio dell’Italia da paese agricolo a industriale, questo non è possibile per grandi città popolate e ipercostruite dalla preistoria.

Il destino di Genova si specchia infatti in quello di Firenze, dove l’Arno non offre uno spettacolo molto rassicurante. Viene da pensare anche in questo caso, che è più facile, per la visibilità mediatica, rottamare che non pulire.

 

 

 

 

 

 

 

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