Tor Sapienza, Infernetto, Roma, Italia…20 Attila negri

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 18 Novembre 2014 - 13:16 OLTRE 6 MESI FA
Tor Sapienza, gli scontri davanti al centro di accoglienza per rifugiati

Tor Sapienza, gli scontri davanti al centro di accoglienza per rifugiati

ROMA – Non riesco a non provare un fastidio, quasi fisico, come quando un cattivo odore annuncia e illustra per via di olfatto una cattiva sorpresa per gli occhi. Stavolta l’olfatto dell’anima viene sollecitato e raggiunto soprattutto per via televisiva, il cattivo odore promana soprattutto dalla televisione. Non riesco a reprimere, e poi in fondo perché reprimere, una ripulsa. Ripulsa di testa ma anche un po’ di stomaco per i tanti che si ingegnano, si affannano, si danno da fare e poi si danno di gomito e si danno il cinque e non di rado si fanno anche i reciproci complimenti per allestire e offrire palco e megafono. Luci e colori. Pubblico e applausi. Scenografia e copione. Il tutto allestito e offerto alla “caccia al negro”. Neanche al “negro” in generale che, si sa, se era proprio come i bianchi lo facevano allora bianco. No, proprio la “caccia al negro” e proprio a quella ventina di minorenni “scuri”. Proprio quelli là, quelli cacciati a furor di popolo da Tor Sapienza e che ora il popolo dell’Infernetto (altro quartiere romano) proprio non vuole. Quelli là, proprio quei venti “scuri”.

Il circuito della narrazione, massimamente televisiva, ospita e promuove da giorni una campagna di scoperta e denuncia. La conducono i portavoce (?) della gente di Tor Sapienza o dell’Infernetto o di Corcolle o di Roma tutta e in fondo dell’Italia tutta. I portavoce, sì insomma quelli che nella gerarchia del “territorio” hanno conquistato la miglior postazione in favore di telecamera (spesso coincide con la miglior postazione a suo tempo conquistata al bar). I portavoce, meglio sarebbe dire portagrido vanno davanti alla telecamera e gridano, letteralmente gridano. Come da format consolidato da anni e anni, gridano la “rabbia e la frustrazione”, “l’abbandono e l’indignazione”, “la paura e il bisogno”. Loro gridano e il circuito della narrazione diffonde.

Mica solo le grida, anche i contenuti della narrazione. Apprendiamo quindi di grida in grida, di intervista in intervista, di pubblico in studio in gente in strada, di titolo in titolo e anche purtroppo di testo in testo di carta stampata che la gente dà la caccia a quei venti “scuri” perché…Perché i lampioni delle strade sono rotti o non ci sono proprio. Perché i rifiuti urbani non vengono raccolti. Perché le strade sono piene di buchi, i luoghi pubblici senza manutenzione, il trasporto pubblico una schifezza così come ogni altro pubblico servizio e pubblica attività. Perché l’illegalità è ampiamente consentita o tollerata e comunque non repressa. Ecco perché, secondo la narrazione maleodorante, la gente dà la caccia a quei venti “scuri”.

Devono quindi essere venti Attila, “Attila negri”. Loro hanno devastato le periferie, bucato le strade, spento i lampioni, desertificato i giardinetti. Loro, gli “Attila negri”. Loro e non la brava gente romana e italica usano gettare rifiuti dove capita, dalla cartaccia fuori dal finestrino dell’auto al vecchio televisore o frullatore davanti al cassonetto a qualcosa di più ingombrante e compromettente nella discarica clandestina. Loro, gli Attila negri si sono mangiati il territorio cementificandolo, loro hanno costruito la clientela inefficiente dell’Ama e dell’Atac, loro sono le centinaia di aziende partecipate dal Comune in perenne deficit finanziario, loro sono i quasi 30 mila stipendi del Comune e affini. Loro, gli Attila negri impediscono che questo immane sforzo finanziario vada ad utilità dei cittadini di Roma. Loro, gli Attila negri, impongono il pizzo sulle attività commerciali travestiti da vigili. Loro, con il loro andirivieni, sono la causa del traffico che soffoca.

Loro, gli Attila negri, rompono e poi non riparano l’asfalto. O meglio lo riparano in maniera tale che due mesi dopo, se va bene, si risfascia. Loro sono le migliaia e migliaia di cittadini morosi che non pagano l’affitto della case popolari e che però spesso la casa popolare se la riaffittanno o addirittura se la vendono “a nero”. Sono loro alle spalle di Acea che da anni emette bollette senza riscontro reale con i consumi, loro che fanno chiudere i negozi, loro all’origine della prostituzione femminile e pure maschile. Loro, gli Attila negri sono responsabili di tutto questo mal vivere. Loro e meno che mai impiegati, operai, amministratori, professionisti italiani. Gli unici italiani responsabili di qualcosa secondo la narrazione sono i politici. Tutti gli altri italiani sono santi e vittime.

Loro, gli Attila negri sono i responsabili, per questo vanno cacciati. Ovunque la gente è organizzata in vedetta per controllare che l’orda dei venti Attila negri non si avvicini. Nella narrazione si dice, e si grida, che non è razzismo. E infatti non lo è. E’ peggio. E’ quella cosa che a Roma si chiama infamità. Chi si sente orgoglioso e investito della missione di assediare e cacciare una ventina di minorenni “scuri” non è detto che sia razzista, anzi forse non lo è nemmeno. Di sicuro però è un infame che sfoga il suo disagio, i suoi guai e anche la sua impotenza e ignoranza sul prossimo. E fin qui lo fanno in molti, talvolta lo facciamo tutti. Però sfogare sul prossimo più debole e vulnerabile, questa è infamità. Infamità che il circuito della narrazione non narra, forse perché non la vede, forse perché la copre, forse perché la condivide.

Non so se il circuito della narrazione dispone in tutte le sue vaste articolazioni della nozione della parola pogrom. Quelli in mostra sul circuito della narrazione sono pogrom: caccia a furor di popolo di umani d’altra etnia. Pogrom senza morti, differenza notevole da quelli classici. Ma classicamente pogrom. Ai narratori la parola e il concetto di pogrom dovrebbe indurre qualche prudenza nella promozione del “furor di popolo”. Alla gente, alla brava gente, a molta della brava gente comune, se glielo spieghi cosa era e cosa è il pogrom, capisce, annuisce e approva. Alla brava gente il pogrom sta bene, alla sola condizioni che a fare il lavoro duro della “caccia al negro” siano cacciatori volontari, volontari del furor di popolo. Il padre di famiglia, la madre di famiglia e soprattutto I “pupi” e i “regazzini” possono fare pubblico, ala e coro. Ma il lavoro duro della caccia, quello no. A questa sola condizione…si chiama pogrom? Embé, e allora?

Venti minorenni “scuri” trasformati in Attila negri. Alla brava gente piace la narrazione spiccia. Non sono rom quei venti. E sono i rom soprattutto italiani. E sono i rom a vivere spesso di illegalità. E sono i rom a vivere spesso di attività illegali e nocive dentro campi fuori da ogni regola. Ma la brava gente mette in carico a quei venti minorenni scuri quel che fanno e viene fatto fare ai rom. Non sono clandestini quei venti minorenni scuri. Clandestini cui capita di scivolare nella marginalità criminale. Clandestini, mica tutti, che peggiorano la vita collettiva. Non sono clandestini ma a quei venti minorenni scuri la brava gente vuole riservare il marchio e il trattamento che si infligge al peggior clandestino.

Non sono neanche immigrati quei venti minorenni scuri. Gli immigrati in stragrande maggioranza non delinquono e non “sporcano”. E comunque i grandi reati sociali, quelli che hanno devastato la res publica, sono tutti rigorosamente allogeni e tricolori: la corruzione, la dilapidazione del denaro pubblico, l’irresponsabilità, lo scarica barile, l’inerzia, l’organizzarsi per tribù e bande…Ma la brava gente immigrati, clandestini, rifugiati, rom…sono tutti una razza.

Quei venti minorenni scuri sono rifugiati, sono scappati da una guerra. Sono ragazzi, bambini che una tribù civile o semplicemente civilizzata adotterebbe. La gente, la brava gente italiana esasperata e non razzista invece secondo la narrazione quei rifugiati li vuole cacciare. Perché sono degli Attila negri. Non so se il sapiens sapiens sia stato in origine, allo stato di natura, fondamentalmente buono. E se poi sia stato incattivito dalle storiche reali condizioni di vita, sociali in primo luogo. Oppure se il sapiens sapiens sia stato fin da subito aggressivo, votato al conflitto e poco amico del suo prossimo. Come che sia andata, ora qui da noi va così: la narrazione è brutto show di brutto giornalismo e la gente, la brava gente, è brutta gente. Imbruttita dalla crisi economica, vero. Ma che dalla crisi economica e sociale non so se uscirà mai continuando a narrarsi e farsi narrare alibi neri quali quello dei venti Attila negri. E, a guardarla in diretta, di uscirne neanche se lo merita tanto.