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Economia e “decrescita felice”: Serge Latouche come Pol Pot

di Marco Benedetto |25 Marzo 2016 18:15

Economia e “decrescita felice”: Serge Latouche come Pol Pot

L’ideologo francese Serge Latouche si è fatto una settimana di ferie in quel di Capalbio, ospite e principale premiato dell’alloro internazionale intitolato alla cittadina maremmana che viene attribuito ogni anno a fine agosto. Un pubblico variegato di villeggianti, butteri e nobili proprietari di ville, casali e tenute ha così potuto ascoltare dalla viva voce del teorico della “decrescita felice” in cosa consista la sua ricetta contro la crisi e per il futuro del globo.

Punto di partenza, un’analisi delle storture dello sviluppo così come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo: utilizzo smodato delle risorse naturali che oramai starebbero in molti casi andando verso l’esaurimento; consumi superflui a go-go, indotti anche dalla pubblicità; disoccupazione di molti e supersfruttamento di chi lavora; distruzione del paesaggio naturale e di quello urbano del tempo che fu; dittatura della moda con relativi sprechi; obsolescenza accelerata dei mezzi di produzione e dei prodotti che mettono fuori mercato beni che avrebbero ancora capacità di produrre e soddisfare bisogni; altre nefandezze ancora.

Una descrizione tutt’altro che nuova: basti pensare a testi fondamentale che spesso ormai hanno compiuto cinquant’anni, come “La società opulenta” di John Kenneth Galbraith o “I persuasori occulti” di Vance Packard.

Quando poi il pensatore d’oltralpe passa dalla descrizione, poco originale e in parte condivisibile, alla prescrizione, vale a dire a indicare le strade che l’umanità dovrebbe imboccare per superare le mortali aporie del capitalismo, allora di condivisibile rimane poco o nulla.

Latouche, ad esempio, “consiglia” di abbandonare la divisione internazionale del lavoro e il (relativamente) libero commercio internazionale per creare una “rete” di comunità locali ciascuna delle quali fabbrichi quanto è necessario ai suoi cittadini. Le produzioni che in decenni di globalizzazione sono state delocalizzare in aree con costi più bassi dovrebbero venire “rilocalizzate”: l’Italia, per fare un esempio, dovrebbe tornare a produrre beni maturi, a bassissimo livello tecnologico, anziché puntare sui segmenti di mercato più innovativi e ad alta produttività. Naturalmente tutti i paesi dovrebbero fare altrettanto.

Per superare il problema della crescente disoccupazione, inoltre, il teorico francese rispolvera lo slogan del “lavorare meno per lavorare tutti” che ebbe una certa fortuna in Italia negli anni Settanta. Anche in questo caso le questioni delle interrelazioni fra le variabili macroeconomiche, della competitività internazionale, delle dinamiche retributive (guadagnare meno? e quanto meno?) vengono bellamente trascurate.

Pare che Latouche non abbia mai sentito parlare della teoria dei vantaggi comparati che David Ricardo elaborò due secoli fa, dimostrando che la specializzazione produttiva fra paesi portava vantaggi a tutti gli attori in gioco.

Nel pensiero debolissimo del “filosofo” francese rientra anche l’abolizione della pubblicità, fattore decisivo per trasformare consumi equi e necessari in una dissennata corsa ai consumi, quella del turismo, che provoca inquinamento e rovina il paesaggio, quella della moda, quella delle automobili che andrebbero sostituite da mezzi pubblici e biciclette, e via elencando. Ma ci fermiamo qui. Piuttosto è il caso di aggiungere solo due considerazioni di carattere generale.

La prima: stupisce che tesi così palesemente insostenibili trovino una favorevole accoglienza presso un pubblico relativamente ampio e non solo giovanile: a Capalbio si sono visti attempati e colti signori e signore che pendevano dalle labbra del guru d’oltralpe. Evidentemente la cultura economica è assai poco diffusa nel Belpaese. Un Paese, peraltro, dove la decrescita è in atto da più di un decennio e sta provocando enormi disastri economici e sociali: una “decrescita infelice”, anzi infelicissima, insomma. Sarebbe interessante comparare il successo ottenuto dalla teoria della “decrescita felice” nella “piccola Atene” maremmana con l’accoglienza che potrebbe avere se predicata a un pubblico come quello dei lavoratori dell’ Ilva di Taranto o di disoccupati lasciati sul lastrico da centinaia di altre industrie disseminate nella penisola e già chiuse o in via di smantellamento.

Ultima considerazione:  chi stabilisce quali consumi andrebbero ridotti e in quale misura? E soprattutto: a chi vanno ridotti? Perché, è evidente, la decrescita può anche piacere, purché sia quella degli altri. Inoltre, chi decide quando chiudere le frontiere al commercio internazionale, quali beni contingentare, come far sì che tutti i paesi accettino questo modus operandi? A queste domande riesco a rispondere in un solo modo. Basta con la tirannia del mercato, basta con le scelte libere ma stupide dei cittadini: tutto il potere mondiale va concentrato in un solo Stato sovrano e a capo di questo un solo uomo: Pol Pot Latouche, ovviamente.