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Sampdoria & Garrone, storia infinita da Mantovani a Cassano

di Renzo Parodi |16 Maggio 2022 10:20

GENOVA – I sacri comandanti lasciati in eredità da suo padre, Riccardo Garrone li aveva portati nel cuore per decenni, come il viatico della propria vita di imprenditore. “Mai acquistare giornali. Mai acquistare squadre di calcio”. Si era attenuto alla lettera e non avrebbe mai immaginato di trovarsi, un giorno di febbraio del 2002, proprietario di una società di calcio. La Sampdoria, per la quale aveva covato una passioncella giovanile, da semplice tifoso però, presto sfumata nel fuoco degli impegni professionali. Accadde quasi per caso, Garrone rispose al suo istinto generoso, profondamente genovese, che dimentica la convenienza, – la parola d’ordine degli “scagni” dove per secoli si era accumulata la ricchezza mercantile della Superba – per il beau geste in favore di chi viveva giorni cattivi.

Soprattutto se portava impresso il marchio genova, la città che Garrone amava con disperata ostinazione. A dispetto dei… dispetti che l’establishment gli ha propinato. Tropo fuori dal coro per piacere al milieu ammuffito della città. Troppo orgogliosamente controcorrente, Garrone, troppo visionario e lungimirante, per attirarsi le simpatie di chi vive sott’acqua, traccheggiando nella mediocrità niente affatto aurea.

La Sampdoria in quei mesi, come società per azioni era virtualmente fallita, spolpata fino all’osso dalla pessima gestione (finanziaria e sportiva) di Enrico Mantovani, il figlio del grande Paolo Mantovani, grande amico e sodale di Riccardo Garrone, che l’aveva lanciata nel firmamento delle Grandi del calcio internazionale, conducendola allo scudetto nel 1991 e l’anno seguente alla finale di Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) perduta a Wembley contro il Barcellona allenato da Cruijff. Ebbene, Garrone non era mai stato neppure sfiorato dal pensiero di diventarne l’azionista unico, il proprietario, la parola padrone non gli sarebbe piaciuta.

Duccio Garrone si era prodigato per salvare la società blucerchiata dalla rovina, interponendosi come garante, in una confusa trattativa che avrebbe dovuto condurre a Genova nientemeno che uno Sceicco. La storia prese una piega perfetta per un film di Totò e Peppino, il principe arabo era un’invenzione di uno spregiudicato brasseur d’affaires napoletano, tale Antonino Pane, che si dileguò non appena il suo goffo bluff venne scoperto. Garrone non se la sentì di tirarsi in disparte e abbandonare la Sampdoria al proprio destino. Da genovese vero, “riso reo” (poche risate) e niente chiacchiere, convocò il consiglio di famiglia. “Ho impegnato il nostro nome, non posso tirarmi indietro”.

Acconsentirono tutti, anche il ramo Mondini (Giampiero Mondini ha sposato la sorella di Garrone, Carla),che ha il cuore rossoblù, tutti tranne Monica, la figlia, sampdoriana accanita. Nacque così l’ircocervo della holding proprietaria della Sampdoria, piena zeppa (anche) di tifosi genoani. Un unicum, roba che soltanto a Genova – laboratorio di mille imprese – avrebbe potuto concepire. Non tutti erano d’accordo sul salto nel pallone. Non lo erano – e pour cause, i simpatizzanti del Genoa, non lo era il figlio Alessandro, del tutto estraneo al calcio. Temevano tutti, che il passaggio sul terreno minato del pallone si sarebbe risolto in una debacle finanziaria per il gruppo. Ipotesi non lontana dalla realtà. In undici anni, quasi 150 milioni di euro si sono polverizzati nella gestione della società Sampdoria. In Italia, si sa, il calcio – se gestito onestamente – è sempre un’impresa economicamente in perdita. Ma vuoi mettere la soddisfazione? Ventimila persone che invocano all’unisono il tuo nome nel catino dello stadio ribollente di passione? Certe gioie non hanno prezzo.

Garrone si accollò tutti i debiti della società (qualcosa come trenta milioni di euro), tacitando miriadi di creditori angosciati di veder sfumare i loro denari tra le carte bollate del tribunale fallimentare. E si ritrovò a gestire una squadra malconcia e periclitante in classifica, in serie B da tre anni, con la concreta prospettiva di precipitare addirittura in terza serie. Da dove, probabilmente, non sarebbe mai più riemersa. Ed ecco che con quell’umiltà che faceva da contrappunto all’orgoglioso carattere che talvolta gli suggeriva impuntature letali, Duccio Garrone mise a segno la prima mossa, azzeccata, della sua vicenda di presidente della Sampdoria.

Chiamò al proprio fianco Beppe Marotta, un dirigente calcistico varesino – ma siciliano d’origine – che si era segnalato per perizia e occhio lungo nell’Atalanta. Fu Paolo Lanzoni, un banchiere suo amico e tifoso blucerchiato, a segnalarglielo: “E’ bravo. E onesto”: Garrone scelse e scelse bene. “Io non so nulla di calcio – ammise – e devo affidarmi a persone competenti”. Maneggiando l’oro nero, il petrolio, la ricchezza di famiglia si era regolato secondo le stesse rigide regole: onestà, serietà, rispetto della parola data. E ovviamente capacità specifiche. Le doti richieste per lavorare accanto a lui.

Nel calcio in verità Garrone non era esattamente un neofita. Con la ERG, l’azienda di famiglia, aveva sponsorizzato per anni la Sampdoria di Paolo Mantovani e, brevemente, anche la società guidata (si fa per dire) dal figlio Enrico. Non lo ha mai confidato a nessuno ma fu lui ad intervenire presso Mario Contini (socio di Paolo Mantovani nella Pontoil che fece fortuna con il petrolio) affinché firmasse una generosa fideiussione di parecchi miliardi di lire che permise a Enrico Mantovani, il figlio di Paolo, di iscrivere la Sampdoria al campionato di serie B 2001/2002. Non se ne attribuì mai il merito.

Detestava i blageurs. Aveva sempre declinato gli inviti, privati e pubblici, ad impegnarsi in prima persona nel calcio. “Non è roba per me”. Ma il vento fa il suo giro e alla fine la Sampdoria era diventata la sua principale cura. “E’ come una ballerina ammalata. Vogliamo riportarla sui palcoscenici che merita di calcare”, Garrone elargì la metafora che sarebbe piaciuta a Tersicore, la musa della danza, e certamente rallegrò la figlia Costanza, ètoile a Parigi.

Marotta salvò la Sampdoria dal tracollo e l’anno successivo costruì la squadra risalire a riveder le stelle, in serie A, l’habitat naturale del club. Scelse un allenatore scafato, esperto della cadetteria, come Walter Novellino, che aveva riportato su il Piacenza e il Napoli. Scremò fior da fiore in sede di calciomercato e compose la coppia dei nuovi gemelli del gol. Flachi e Bazzani, degni eredi della mitica coppia Vialli-Mancini. La Sampdoria volò in serie A. Centomila persone festeggiarono l’evento sulla spianata genovese della Foce.

Le foto di quella sera infiammata raccontano della gioia di Duccio, scamiciato in pizzo al bus londinese a due piani noleggiato per permettere alla squadra di raccogliere l’osanna del popolo blucerchiato. Sciarpa blucerchiata sventolante come una bandiera, felice come un bambino, lui descritto come un uomo duro, freddo, refrattario alle passioni. Garrone, semmai, il calcio imparò a viverlo con trasporto totale. Fu come scoprire un mondo mai neppure immaginato. La popolarità che produce il pallone che rotola, l’essere riconosciuto e ringraziato ad ogni angolo di strada. Non ci sono soldi per pagare gratificazioni simili.

Abituato a correre dalla sede della Erg (che avrebbe lasciato a metà del nuovo decennio alla cure dei figli maggiori, Edoardo e Alessandro), al ristorante prediletto (l’Europa di Galleria Mazzini, teatro di interminabili sfide a scopone coll’amico Franco Ardoino, il presidente del Livorno Spinelli e il governatore ligure Burlando), Duccio si trovò immerso nell’affetto travolgente dei tifosi sampdoriani. Che in lui videro il continuatore dell’opera di Paolo Mantovani, l’indennizzo per il decennio delle streghe culminato con la retrocessione del 1999. La nuova vita si consumava tra autografi, fotografie, strette di mano, incoraggiamenti e ringraziamenti. Una piecé talmente appagante che Garrone cominciò a frequentare gli abituali ritrovi dei tifosi.

Non mancava mai all’appuntamento estivo con la festa di Fontanile d’Asti. Al volante della sua Porsche Panamera azzurro metallizzato – un vezzo di gioventù che si era concesso in vecchiaia – si presentava all’appuntamento e della sagra calcistico-popolare, si accomodava al tavolo in mezzo alla gente, sorseggiando un bianco e assaggiando le specialità gastronomiche. E chiacchierava di calcio, lui che aveva detto di non capirci nulla, Non prometteva scudetti, questo no. Un genovese non indulge al populismo tanto al chilo. Ma l’impegno e la passione sì, allo scopo di migliorare l’esistenza di quella ballerina che aveva riportato a danzare, quattro volte addirittura sui palcoscenici europei e l’ultima fu il passo d’addio di Antonio Cassano.

Fu quel ragazzaccio la sua delizia e la sua croce, il pegno di una passione sportiva che aveva relegato le altre pratiche – la caccia, il tennis, lo sci e il golf – in ruoli ancillari. Cassano fu per lui il figlio adottivo che Roberto Mancini era stato per Paolo Mantovani. Una vita sprecata da riportare all’onore del mondo ed è facile l’ironia postuma prodotta da quel divorzio plateale, condito dagli insulti di Antonio al al suo padre putativo. In quel mènage strampalato tra un capitano d’industria e un ragazzaccio da strada baciato dal talento dei campioni, se un peccato fui consumato fu per troppo amore da parte di Duccio.

Quelle cene in villa con Cassano ospite, gli inviti di mamma Giovanna a Nervi per gustare le orecchiette alla barese con cima di rapa si trascinarono appresso privilegi ingiustificati. Cassano li scambiò per diritti acquisiti e la miccia della grande deflagrazione del 26 ottobre 2010 cominciò à a bruciare lì, nella confidenza eccessiva tra i due, il presidente e il calciatore, il datore di lavoro e il dipendente. Niente di simile accadde a Milanello fra Galliani e Cassano, ma si sa che ognuno di noi è fatto a modo suo.

E se Garrone peccò, peccò per eccesso di generosità. Chiunque altro, al suo posto, avrebbe mantenuto le distanze. Lui le annullò. Ma bisogna pur dire, in articulo mortis del grande presidente, che i germi che avrebbero divorato quella prodigiosa convivenza, cominciarono a riprodursi quando, gennaio 2010, Marotta aveva ceduto Antonio in prestito alla Fiorentina senza avvisare il presidente. Era l’ultimo giorno del mercato di gennaio, è lì si consumò un altro divorzio, poi fatale alla Sampdoria, quello fra Garrone e Marotta. I due avevano filato d’amore e d’accordo per otto anni. Ma quel colpo basso Garrone non lo perdonò più al suo amministratore delegato.

Riuscì a convincere Casssano a rifiutare la Fiorentina – il suo capolavoro più bello – ma le cose alla Sampdoria non furono più le stesse. Qualcosa si era rotto per sempre. La fiducia, che è il colante di qualunque impresa, anche la più umile. Come si usa dire, non è possibile infilare il dentifricio una volta volta che è uscito dal tubetto. La famiglia decise di averne abbastanza di Cassano, troppo costoso e ingestibile sul piano umano e calcistico, chiedere a Mazzarri e Delneri, due delle sue vittime più illustri. Duccio Garrone si impuntò: Cassano lo gestisco io, proclamò.

A costo di mettersi in urto col primogenito, Edoardo, e col suo commercialista di fiducia, Antonio Guastoni. L’epilogo è noto. La sfuriata di Cassano, gli insulti pubblici, sanguinosi, inaccettabili, che inevitabilmente condussero al divorzio. Doloroso. Lacerante. Sarà stato un caso, ma i primi sintomi del male si manifestarono nei mesi successivi alla devastante querelle con Cassano. Fu la sua sconfitta più grande, proprio nell’anno in cui la Sampdoria aveva attinto alle vette europee, preliminari di Champions League sfumata al 90′ di un indimenticabile match casalingo col Werder Brema.

Una delle ultima apparizioni di Cassano in blucerchiato. Il Milan ne avrebbe volentieri raccolto i cocci, rivitalizzando un atleta – e una persona – smarrita dall’enormità di quel che aveva provocato. Il pentimento, puntuale, giunse. Ma se tra i due erra rinato l’affetto, l’antica intesa non era più praticabile. Cassano avrebbe voluto concludere la carriera di calciatore con la maglia blucerchiata. E lo vorrebbe ancora. Purtroppo la macchina del tempo col pallone non funziona.

Il calcio è generoso ma capace, anche, di inaudite crudeltà. Aggredito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte, Duccio Garrone cominciò a defilarsi. Orfana del suo patriarca, senza più Marotta, sdegnosamente indirizzato dal presidente alla Juventus, ben lieta di accoglierne i servizi (e si è poi visto perché), la Sampdoria andò alla deriva. Uno sciagurato mercato di gennaio, due anni fa, (via Pazzini per pochi spiccioli, all’Inter), completò l’opera di disgregazione.

In estate fu serie B, nel giubilo dei tifosi del Genoa. Che a Duccio Garrone non avevano mai perdonato non tanto il presunto cambio di casacca (i seguaci del Grifone si erano messi in testa che un giorno Duccio avrebbe acquistato il Genoa). Quanto piuttosto per via della sua proposta di costruire un nuovo stadio, abbandonando – Genoa e Sampdoria insieme – il glorioso ma vetusto “Luigi Ferraris”, spiaggiato come una vecchia balena sulle rive cespugliose del torrente Bisagno. Eresia solenne per i suiveurs del Vecchio Grifone. Imperdonabile bestemmia che misero sul conto del presidente della Sampdoria.

Il progetto di una nuova casa del calcio destinato alla Sampdoria, presentato e bocciato due volte dalla ben nota macchina dei veti incrociati cittadini, ora è stato riproposto, ma nell’area della Fiera del Mare. E, incredibilmente ha trovato udienza preso le sacre stanze del potere genovese, refrattarie a qualunque novità che increspi la paludosa acqua nella quale sta annegando la un tempo Superba. Lo porterà avanti il figlio di Duccio, il primogenito Edoardo, che porta il nome del nonno. Quel nonno che nell’estate del 1963 aveva promesso al cardinal Siri di acquistare il Genoa. E non potè mantenere l’impegno perché un infarto lo stroncò durante una battuta di pesca al salmone in Norvegia.

Anche Duccio si sentì rivolgere una richiesta analoga, a metà dei Settanta, dall’allora sindaco Fulvio Cerofolini, socialista lombardiano e soprattutto genoano di fede. “Rifiutati perché la Erg stava trattando col Comune di Genova il trasferimento degli impianti di raffinazione di San Quirico (in Valpolcevera, ponente cittadino, ndr) e non volevo che si pensasse che il Genoa fosse la moneta di scambio per soddisfare le mie richieste”. Fu Garrone a confidarmelo in uno dei nostri colloqui off the records. Ecco, questo era l’uomo. Il resto sono chiacchiere buone per i salotti dei nullafacenti.

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