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Rai. Repubblica sposa Gubitosi, vuole una Fondazione: più opaca dei partiti però

di Marco Benedetto |9 Dicembre 2020 7:49

Giovanni Valentini (Lapresse)

No a Beppe Grillo, sì a Luigi Gubitosi. Per sottrarre la Rai al controllo dei cittadini attraverso i partiti che li rappresentano e affidarlo a una entità più o meno arcana vestita da Fondazione. La posizione assunta su Repubblica da Giovanni Valentini, autorità somma e in passato combattente estremo in materia di libertà di stampa, desta perplessità e preoccupazione.

Non è solo Valentini, a Repubblica, a schierarsi con il direttore generale della Rai Gubitosi. Alcuni mesi fa anche Aldo Fontanarosa, di solito pungente cronista del mondo tv, era sembrato perplesso ma allineato sul fenomeno Gubitosi.

Gubitosi sembra ora avere affascinato Valentini, che riporta, senza critica, una serie di affermazioni dello stesso Gubitosi che non sono coerenti con i confini del ruolo e delle competenze di un direttore generale della Rai.

 Giovanni Valentini, sempre attento a denunciare la minima minaccia alla carta stampata, in questo caso sembra non rendersi conto del pericolo rappresentato dalle politiche commerciali della pubblicità Rai.

La Rai porta avanti, attraverso la concessionaria di pubblicità Sipra, politiche commerciali degne della peggiore Publitalia ma Valentini non se ne accorge. Parlando con Valentini, Gubitosi attribuisce i miglioramenti dei conti Rai “ai tagli ai costi e agli sprechi” ma non nomina, come ha fatto invece con Andrea Secchi di Italia Oggi, la sua azione in pubblicità.

Promette

“risultato operativo con il segno più quest’anno e al pareggio di bilancio nel prossimo, “per raggiungere l’obiettivo fondamentale del risanamento””.

Lo avevano promesso altri prima di lui, specie i suoi due ultimi predecessori, Mauro Masi e Lorenza Lei: hanno lasciato prima che se ne potesse chiedere loro conto e quando c’è il cambio della guardia, si sa, direttore nuovo, vita nuova e promesse nuove.

Valentini è stato tra i primi e più coerenti oppositori della tv commerciale Berlusconi Style e su questo fronte non ha mai smesso di combattere, trasformando la sua rubrica settimanale su Repubblica in una estrema difesa, votata alla sconfitta di fronte a forze preponderanti, ma sempre a testa alta e senza mai ammainare la bandiera.

Con Gubitosi ha assunto un atteggiamento che ha deluso alcuni suoi ammiratori nel mondo della carta stampata e di internet, che lo avevano visto come uno dei pochi rimasti a tutelarne i legittimi interessi di sopravvivenza. Ancor più preoccupante in Gubitosi è la posizione sul ruolo della tv pubblica, che Valentini condivide e sulla quale elabora una sua preoccupante piattaforma.

Gubitosi, intervistato da Valentini, si è lanciato in spericolate affermazioni su

“ruolo e funzione del servizio pubblico sul piano della qualità”

che non sembrano appartenere al perimetro delle competenze del direttore generale e non sembrano nemmeno essere il risultato di linee guida dell’azionista, che è lo Stato italiano attraverso il Ministero dell’Economia.

Riferite da Valentini, le parole di Gubitosi assumono sfumature surreali:

“Mi rifiuto di dividere la società italiana in blocchi politici: dobbiamo cercare, piuttosto, di unirla intorno a valori condivisi”.

Sono parole alla Veltroni, nella migliore delle ipotesi. Sotto sotto però si sente il desiderio di guidare, educare, evangelizzare.

Alla domanda se in futuro la Rai baderà meno agli ascolti e più alla qualità, Gubitosi risponde sicuro, anche se poi rimedia premettendo che

“sono scelte che spettano all’azionista o al legislatore in attesa del rinnovo della Convenzione con lo Stato nel 2016”:

“Questa è la missione aziendale. Se riusciremo a fare programmi di qualità, non mi preoccuperò tanto di perdere ascolti. Certo è che dobbiamo abbandonare la strada di una certa produzione trash e riprendere quella della tradizione culturale: a cominciare dal teatro, a cui dedicheremo uno spazio particolare”.

Sembra dettato da Berlusconi. Mai Mediaset avrebbe sperato tanto, la Rai che rinuncia alla guerra dell’audience, in nome della qualità, così in astratto, senza che il concetto di qualità venga quanto meno abbozzato, a meno che non coincida con la trasmissione di spettacoli teatrali, come avveniva all’alba della tv italiana, più di 50 anni fa. Allora, quantomeno, c’era Mike Bongiorno.

Oggi viene da dubitare se Lascia o Raddoppia? soddisferebbe i criteri di Gubitosi e della sua presidentessa, Anna Maria Tarantola, a nome della quale Gubitosi dice di parlare:

“Noi non ci faremo né intimidire dalla politica né condizionare dalla pubblicità”

è il loro manifesto.

La Tarantola, nota per la grande competenza in campo tv e informazione maturata alla Banca d’Italia, per l’ostracismo decretato contro Miss Italia e anche per il silenzio sotto cui ha passato il bacio con lingua tra Mara Venier e Ornella Vanoni a Domenica In.

Gubitosi parla con untuosa sicumera:

“Sono un manager, non un “tecnico” della televisione. E il mio mestiere è quello di far crescere le aziende e risolvere i problemi”.

Alla fine però il suo sogno è

“semplificare la gestione, per svincolarla dalle interferenze politiche e renderla più rapida”

Gubitosi non specifica se tra le interferenze includa i controlli della Corte dei conti, che rivendica il suo titolo a controllare gli atti della Rai, alla stregua di un qualsiasi ente pubblico.

Valentini gli corre dietro:

“Chi conosce e denuncia da tempo i vizi del servizio pubblico, fin da quando anche Grillo lavorava per la Rai, non può che condividere l’urgenza di una riforma organica che l’affranchi finalmente dalla sua doppia sudditanza: alla politica e alla pubblicità”.

Per farne che? A chi affidarne il controllo? In altro articolo diverso dalla intervista a Gubitosi, Valentini affronta il tema e lo fa esponendo idee che è doveroso definire pericolose:

“Le proposte in materia non mancano. I punti essenziali restano due.

“Primo: trasferire la proprietà della Rai, vale a dire il pacchetto azionario, dal governo (ministero dell’Economia) a una Fondazione, diretta da una rappresentanza articolata di varie componenti sociali: università, enti culturali, mondo dell’informazione e dello spettacolo, sindacati, organizzazioni dei consumatori, associazioni ambientaliste e così via.

“Secondo: attribuire alla Fondazione la nomina di un consiglio di amministrazione, ristretto a cinque componenti, con un amministratore delegato con pieni poteri.

“Questi sono i presupposti per riformare e rilanciare il servizio pubblico. Da qui, può partire la smobilitazione effettiva della politica dalla tv di Stato.

“Sulla funzione e sul ruolo istituzionale della Rai, ma ancor più sui caposaldi del suo modello culturale, sarebbe opportuno aprire magari un grande dibattito tra tutte le forze parlamentari e sociali, coinvolgendo nella consultazione il maggior numero possibile di cittadini. Sono loro i veri “proprietari” della Rai, non i partiti o i movimenti politici”.

Valentini sembra ricalcare vecchi schemi riconducibili a Giuliano Amato e anni fa attribuiti allo stesso Carlo Azeglio Ciampi ma non spiega come un opaco ensemble, che mette assieme professori universitari, non meglio precisati enti culturali, sindacalisti e ambientalisti, possa garantire i cittadini meglio dei partiti. I partiti rispondono agli elettori attraverso il voto, quella gente là risponderà certo qualcuno ma non certo a noi.

Cosa ha fatto la Fondazione del Monte dei Paschi di Siena per scongiurare quel che è successo? Non sono professori universitari quelli accusati di avere imbrigliato il sistema universitario in un sistema di concorsi truccati da Trento a Bari?

Uno dei nodi della Rai è lo spreco: ma una Fondazione non garantisce contro gli sprechi e gli errori di gestione, come le Fondazioni bancarie hanno ampiamente insegnato.

Appare opportuno ribadire alcuni concetti su quello che deve fare e essere la Rai:

1. Garantire i cittadini che le loro opinioni e idee siano riflesse nella tv di Stato.

2. La tv di Stato deve restare di Stato, perché solo lo Stato può garantire il rispetto del pluralismo.

La tv non è internet dove una notizia può essere messa a disposizione di tutti, grazie alla piattaforma dei motori di ricerca, Google per primo, anche se a diffonderla è un blog operato da una sola persona. Dove, inoltre, per fare un sito decente e funzionale allo scopo possono bastare poche migliaia di euro. Internet dove, infine, il numero dei siti è potenzialmente infinito.

In tv non c’è Google: avere un canale costa milioni e altri ce ne vogliono per i programmi e altri ancora per farli conoscere. Anche se il digitale terrestre ha moltiplicato i canali, la scarsità di risorse intesa come scarsità di frequenze e quindi di canali, su cui la Corte costituzionale basò la conferma del monopolio Rai, si è quindi trasformata in scarsità di risorse economiche.

La tv vuole tanti soldi e tanta gente e tanta bravura. Lo sa bene Urbano Cairo, che gioca una partita ad altissimo rischio.

3. Il pluralismo si attua grazie ai partiti, che sono la cinghia di trasmissione della volontà dei cittadini attraverso il voto.

Valentini non spiega perché un cittadino sarebbe più garantito.

Gubitosi ce l’ha con la Commissione parlamentare di vigilanza, la cui presidenza è toccata al deputato Roberto Fico, del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Per Gubitosi, che la tv di Stato, sottoposta al controllo di una specifica commissione parlamentare, debba mostrare preventivamente un programma, non tutti (“Non si tratta esattamente di fiction, ma di social tv”) costituisce “una forma di censura preventiva, in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione”.

Al montaggio, precisa, parteciperà anche un esponente del Commissariato Onu sui rifugiati. In altre parole, l’ufficio dell’Onu dove lavorava Laura Boldrini prima di diventare presidente della Camera sì, il Parlamento no.

C’è forse un salto logico nella stesura della intervista, ma la sequenza dei concetti è:

1. Domanda: Lei ha deciso, dunque, di sfidare la Vigilanza?

2. Risposta: “Rispetto le istituzioni e tutti i parlamentari”.

3. “Trovo incredibile che faccia parte di questa Commissione un senatore [Maurizio Rossi di Scelta Civica] che è proprietario di una tv privata, è in palese conflitto di interessi e ciò nonostante chiede alla Rai i contratti, i compensi e i dati sensibili che impattano sulla concorrenza”.

Maurizio Rossi è proprietario di Primo Canale, che è una delle tv locali di Genova e Liguria. Sentirsi minacciato da un simile concorrente, che al massimo può dare fastidio alla edizione ligure di Rai3, e parlare di conflitto di interesse dimenticando Berlusconi sfiora il ridicolo. Di Maurizio Rossi può semmai infastidire la competenza specifica nel porre domande imbarazzanti sulla gestione: appalti, contratti, favori.

A quel che si legge e si è letto sui giornali e che mai è stato smentito, i canali Rai sono lottizzati e affidati a mani scelte dai partiti. Sono regole, costruite e affinate in mezzo secolo, dal primo centrosinistra all’arco costituzionale alla Seconda repubblica. Nemmeno Berlusconi vi si sottrasse.

Berlusconi è attento alla pubblicità: a suo tempo sostituì Edoardo Giliberti, troppo aggressivo, col più affidabile Antonello Perricone e ora se potesse toglierebbe Lei e Piscopo: tra Berlusconi e gli editori della carta stampata c’è una oggettiva coincidenza di interessi. Gli editori sembrano preferire la propria morte se è il prezzo della morte dell’odiato Berlusconi.

Sui contenuti, non si possono dimenticare mosse da dittatore come l’editto bulgaro, la guerra a Santoro, avere  piazzato gente di sua stretta fiducia in posti chiave), però nell’insieme Berlusconi ha rispettato la regola che vuole due canali e reti alla maggioranza e uno / una alla minoranza, col numero due sempre alla destra e il numero tre sempre alla sinistra.

Secondo questa logica, appena rieletto, nel 2009, cambiò quel che voleva e poteva a tg e reti uno e due; per Rai 3  e Tg 3 aspettò l’esito del congresso Pd e seguì le indicazioni del neo segretario Pier Luigi Bersani. Lo stesso, per quel poco che si è letto, è stato il criterio che ha guidato alcuni avvicendamenti.

In questo quadro,  il problema “politico” è soprattutto quello degli appalti e degli incarichi. Il cognato di Gianfranco Fini è un esempio ancora molto recente. Lo stesso si può dire delle telefonate di Berlusconi a Agostino Saccà.

Sugli appalti c’è poco da dire. Non costituiscono il totale degli sprechi, ma buona parte sì. Nel pubblico, la mancanza di un azionista che chiede risultati favorisce lo spreco. L’azionista privato vuole profitti, l’azionista pubblico vuole consenso. Diverso sarebbe privatizzare la Rai, ma questo per il momento, finché Berlusconi è vivo, è impossibile. Una privatizzazione che mettesse in mano a un solo privato le tre reti Rai sarebbe la replica del pericolo Berlusconi e una privatizzazione di singole reti Rai deve avere come presupposto il principio che ad ogni rete corrisponda un azionista. Questo vuole dire che da Rai e Mediaset dovrebbero venire 6 differenti società, ciascuna con padroni diversi. Appare evidente che si tratti di una ipotesi irrealizzabile, oggi.

Lo scoglio degli incarichi è difficilmente sormontabile. Gli incarichi passano per gli azionisti della Rai, che sono i partiti. Si può convenire sul fatto che ai tempi del monocolore democristiano e della Rai con i mutandoni alle ballerine di Ettore Bernabei la qualità era migliore. Ma stiamo parlando di mezzo secolo fa, di un’altra Italia, di un altro mercato.

D’altra parte il tema degli incarichi non è immune da favoritismi e scelte non professionali nemmeno nel privato: non tutte le nomine sono trasparenti, non tutti i criteri di scelta sono in funzione dell’utilità aziendale, che è un concetto migliore del merito: i curriculum di cui si parla tanto sono roba da burocrati, i curriculum si costruiscono, i risultati si ottengono e ancora non basta, perché la buona scelta deriva dalla intuizione di chi punta sull’underdog e ne fa un campione. Un mondo governato dai curriculum è un mondo di cui avere paura, è la razza ariana trasferita in azienda.

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