Mondo di mezzo, per la Cassazione “non fu mafia”: la sentenza

di redazione Blitz
Pubblicato il 22 Ottobre 2019 - 20:38| Aggiornato il 23 Ottobre 2019 OLTRE 6 MESI FA
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Mondo di mezzo, per la Cassazione “non fu mafia” (foto Ansa)

ROMA – Mondo di mezzo non è Mafia Capitale. Lo ha deciso la Corte di Cassazione che, ribaltando il verdetto d’appello, ha stabilito che l’organizzazione a delinquere capeggiata dall’ex Nar Massimo Carminati e dall’ex ras delle Cooperative Salvatore Buzzi non è stata un’associazione di stampo mafioso ma un’associazione a delinquere ‘semplice’. Di conseguenza, la pena andrà ricalcolata.

Ora dunque la Corte  d’appello, con una composizionediversa, dovrà ricalcolare le pene. La sesta sezione penale della Cassazione aveva al vaglio la posizione di 32 imputati, di cui 17 condannati dalla Corte d’Appello di Roma, lo scorso anno, a vario titolo per mafia (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno).

Tra questi, oltre a Carminati e a Buzzi (condannati rispettivamente a 14 anni e 6 mesi e a 18 anni e quattro mesi), anche Luca Gramazio, ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio (8 anni e 8 mesi), e Franco Panzironi, ex ad dell’Ama (8 anni e 4 mesi). Per tutti ci sarà un nuovo processo. Inoltre, per quanto riguarda Buzzi, la Cassazione lo ha assolto da due delle accuse contestategli, di turbativa d’asta e corruzione, mentre per Carminati cade anche un’accusa di intestazione fittizia di beni. In conseguenza della riqualificazione del reato in associazione a delinquere semplice, la Cassazione ha pure annullato alcuni risarcimenti alle parti civili, tra cui associazioni antimafia.

L’accusa, mossa dalla procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una “nuova” mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Una “collaudata” organizzazione criminale che aveva le caratteristiche tipiche del 416bis: vale a dire, “la forza di intimidazione espressa dal vincolo associativo e la condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva”, scrivevano i giudici d’appello. Impostazione che la procura generale della Cassazione ha condiviso chiedendo la sostanziale conferma della sentenza d’appello.

“Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stata scritta una pagina molto buia della storia di questa città. Lavoriamo insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e diritti. Una cosa voglio dire ai cittadini onesti: andiamo avanti a testa alta”, ha commentato, amara, la sindaca di Roma Virginia Raggi.

“Non era un’associazione mafiosa? E quindi che era, un‘associazione di volontariato?”, ha detto il leader della Lega Matteo Salvini, mentre per il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra (M5s), “le sentenze si rispettano, ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità restano”. Matteo Orfini, ex presidente ed ex commissario del Pd di Roma, mette in guardia dal rischio di una “autoassoluzione della città, perché la mafia a Roma c’è”.  “Che si definisca mafia o no non importa”, osserva il viceministro dell’Interno Vito Crimi: “quello che è successo a Roma rimane una ‘montagna di m**da’”.

Esultano invece le difese e gli amici degli imputati. “Buzzi aveva ammesso alcune delle contestazioni. A Roma c’era un sistema marcio e corrotto e la sentenza di primo grado l’ha riconosciuto. La procura ha provato a sostenere la mafia. La Cassazione ha detto quello che avevamo sostenuto fin dall’inizio”, ha detto l’avvocato Alessandro Diddi. “La Suprema Corte ha ritenuto la sentenza di appello giuridicamente insostenibile”, ha aggiunto Cesare Placanica, difensore di Carminati, mentre Giosuè Naso, il suo ex storico avvocato, ed attuale difensore di altri due imputati, attacca: “Ma vi pare possibile che la mafia sia stata riconosciuta a Roma in questi ultimi 7 anni, cioè da quando c’era Pignatone, e prima nessuno se ne era mai accorto? A Roma non c’è la mafia, ma una cultura mafiosa, che è una cosa completamente diversa”.  Per Valerio Spigarelli, difensore di Gramazio, “siamo di fronte alla sconfessione delle procura di Roma. Il processo era un esperimento giudiziario, un esperimento fallito”.

Replica il procuratore generale della Capitale, Giovanni Salvi: “Non trovo giustificate le esultanze di qualcuno visto che la Suprema Corte ha riconosciuto l’esistenza di associazioni, nei termini affermati dalla sentenza di primo grado, che aveva irrogato pene non modeste: due associazioni a delinquere che erano state capaci di infiltrare in profondità la macchina amministrativa e politica di Roma”.

Fonte: Ansa