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Partiti ingordi, l’imbroglio legale dei rimborsi elettorali: spendono 600, incassano due miliardi e duecento

di Mino Fuccillo |21 Ottobre 2010 19:56

La Camera dei deputati

Era il 1993, l’ultimo anno in cui i partiti politici italiani incassarono quel che allora si chiamava “finanziamento pubblico”, lo stesso anno in cui un referendum popolare “abolì” quel finanziamento. Quell’anno i partiti politica incassarono circa 80 miliardi di lire, più o meno 45 milioni di euro. All’opinione pubblica sembrarono troppi e comunque mal spesi. Fu bocciato per via appunto di referendum il principio stesso dei soldi pubblici a sostegno dell’attività politica.

Bocciatura sbrigativa e sommaria, più indistinta voglia di punizione dei partiti che serena e ponderata riflessione sull’utilità, i modi e la quantità di quel finanziamento. Comunque bocciatura fu e da quell’anno…Da quell’anno i partiti politici non incassarono più il “finanziamento”, però i soldi sì, i soldi pubblici continuarono a prenderli lo stesso. La questione fu risolta “all’italiana”, si cambiò nome: invece che “finanziamento pubblico” si scrisse “rimborso elettorale”.

Era una “pezza” messa ad un buco, buco allargato dalla disistima generale verso i partiti indotta da Tangentopoli. La “pezza” poteva avere un senso: niente più soldi pubblici ai partiti per il solo fatto di esistere, “rimborsi” alle forze politiche in relazione e proporzione dei voti ottenuti alle elezioni. Si trattava di salvare la “capra” del sentire popolare e i “cavoli” di una democrazia che non può vivere se politica possono fare solo i partiti “ricchi” messi in piedi dai ricchi e potenti.

Quindici anni dopo, nel 2008, la pezza era diventata lenzuolo, anzi intero corredo. Quindici anni dopo i “rimborsi” pagati dallo Stato ai partiti sono stati pari a 503 milioni di euro. Quasi undici volte di più di quanto costava nel 1993 il “finanziamento”. Uno stipendio da un milione di lire nel 1993 è diventato oggi uno stipendio da seimila euro? L’affitto di una casa o il costo di una autovettura hanno subito una simile moltiplicazione? Evidentemente no, non c’è inflazione che tenga. I partiti politici hanno fatto abuso della “pezza”, non ci hanno coperto il buco, ci sono fatte le tende di casa e tutta la tappezzeria, divani e poltrone comprese.

I partiti sono stati insomma ingordi. Ma non basta, la loro ingordigia ha preso una forma che non è imprudente definire di raggiro legalizzato. Infatti si parla, la legge parla di “rimborsi”. Ora chiunque in qualunque situazione voglia un “rimborso” cui ha diritto deve documentare la spesa relativa. Il concetto di rimborso contiene  e non può prescindere dalla prova della spesa che si rimborsa. Senza spesa e senza documentazione di spesa non c’è, non ci può essere rimborso. Elementare, ovvio.

E invece no: fino all’ultimo anno noto, appunto il 2008, i partiti hanno presentato documentazione di spesa per 600 milioni. Dunque sono stati rimborsati dallo Stato per 600 milioni? Neanche per sogno, hanno incassato due miliardi e 253 milioni. Il miliardo e 670 milioni in più non è dunque “rimborso”, è “finanziamento” a prescindere da ogni attività elettorale riconosciuta dalla legge.

I partiti sono dunque “aziende” che producono politica. E, come molte aziende che altro producono, viene loro riconosciuta utilità pubblica. Per questo giustamente e comprensibilmente godono di agevolazioni sotto forma di “rimborsi”. Per altre aziende sono ad esempio rimborsi fiscali o contributivi. Però se un’azienda anche di pubblica utilità chiede allo Stato soldi in rimborso senza documentare le spese relative, lo Stato quei soldi non li paga a quelle aziende.

Anzi, spesso interessa Guardia di Finanza e magistratura per verificare se quella incongrua richiesta non contenga elementi di illegalità, odor di truffa. Invece l’azienda partito può incassare e incassa più di quanto spende e di quanto documenta aver speso. Una delle cause dimenticate e omesse della corruzione, dell’etica e della pratica dominanti della corruzione, è il denato pubblico speso senza controllo e senza motivo documentato. Una delle forme di questa pedagogia nazionale della corruzione è la circostanza per cui fare un partito politico “conviene”: ci si guadagna in rimborsi più di quanto si spende in attività.

Il primo abbozzo della manovra Tremonti provava a “tagliare” almeno della metà questo “spread”, questo vantaggio aziendale a far partito politico. La seconda versione della manovra riduceva quel cinquanta per cento a dieci per cento di “taglio”. L’ultima versione non taglia più nulla al riguardo. Come volevasi dimostrare…

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