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Società pubbliche, ogni giorno una in più: le mangiatoie di Regioni e Comuni

di Alberto Francavilla |13 Luglio 2017 13:16

Il palazzo regionale ad Aosta

Società pubbliche, ogni giorno una in più: le mangiatoie di Regioni e Comuni (nella foto Ansa, la sede della Regione Valle d’Aosta)

ROMA – Società pubbliche, ogni giorno una in più: le mangiatoie di Regioni e Comuni. Una capacità di proliferazione paragonabile a quella di alcune piante infestanti. E’ una delle caratteristiche delle società pubbliche che nel nostro Paese crescono, da 14 anni, al ritmo di una nuova ogni giorno. Sino ad aver raggiunto la vetta di quasi novemila società pubbliche create da Comuni, Province e Regioni. Delle vere e proprie ‘mangiatoie’ per le pubbliche amministrazioni. Società che in molti casi sono in perdita e dove non è raro trovare più dirigenti che impiegati. Società create non tanto per essere competitive ed efficienti sul mercato, ma per fornire altro: incarichi ad amici e politici rimasti disoccupati, distribuire posti di lavoro e perché no favori, e quindi sostanzialmente per gestire quei rapporti clientelari che la politica locale conosce molto bene.

A fornire gli ultimi dati in materia di società pubbliche è il centro studi della Cgil che ha prodotto un rapporto di 60 pagine puntualmente analizzate da Sergio Rizzo su Repubblica. Un’universo costellato di 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze, cresciute di 5mila unità tra il 2000 ed il 2014, che danno lavoro a 783.974 persone (più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme) e che valgono un rapporto società-abitanti di 1 a 6.821.

Uno studio che riserva anche qualche sorpresa, come quella che vede il nord molto più prolifico rispetto al meridione e vede in testa alla classifica delle Regioni con più società in rapporto alla popolazione la Valle d’Aosta (1 società ogni 1.929 valdostani). In Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto e circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Numeri a parte è la qualità delle società in questione a rappresentare il problema. Generassero lavoro, ricchezza e servizi nulla ci sarebbe da obiettare. Ma come segnala Rizzo su Repubblica: “Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci. Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni”.

La politica, quella di Roma, ha negli anni tentato di arginare il fenomeno. Ci hanno provato le varie spending review, puntualmente rimaste su carta come l’ultima prodotta dall’ex commissario Carlo Cottarelli che nel suo rapporto aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla, e ci sta provando la riforma Madia che “prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale”. Tentativi andati sinora a vuoto perché vittime del fuoco incrociato di di diversi e radicatissimi interessi. In primis ovviamente quelli della politica locale e dei rapporti clientelari che troppo spesso la contraddistinguono con le sue tentazioni più inconfessabili. E’ così che le società pubbliche sono diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi. Non soltanto. Questo sistema ha consentito poi di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Interessi che resistono con ogni forza ai tentativi di cambiamento a cui si aggiungono le proteste e le resistenze di chi nelle società pubbliche lavora. E quindi dei sindacati.

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