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Zucconi: “Il mio 11 settembre, cavallo stanco di un’America sconfitta”

di agreco |10 Settembre 2011 18:14

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi ha prenotato una stanza agli ultimi piani nel grattacielo più vicino a Ground Zero, ma, nel decennale degli attentati dell’11 settembre 2001, non sa cosa vedrà affacciandosi dalla finestra. A uno dei più noti giornalisti italiani, non basta una prospettiva privilegiata – la distanza di un centinaio di metri e di una decina di anni – per riuscire a rispondere a tutte le domande sollevatesi con la polvere del crollo delle Torri Gemelle. Gli basta invece per individuare le contraddizioni di una nazione che ora è nei fatti sconfitta ma che allora, nella reazione a questo attacco senza precedenti, sembrò fortissima. E per riflettere su un evento che è stato il più importante del nostro tempo, ma la cui commemorazione suona di anno in anno sempre più insincera e stanca, costringendo a guardarsi indietro un popolo di pionieri abituato a guardare avanti. Un popolo incalzato oltretutto da preoccupazioni più concrete, fatto di gente che l’11 settembre si ferma anche a ricordare, ma che il 12 ha già il pensiero dello sceriffo che viene a bussare alla porta per pignorargli la casa.

In una lunga chiacchierata transatlantica con Blitz quotidiano Zucconi racconta e si lascia ascoltare, da bravo “Zio d’America”(che proprio il giorno degli attentati decise di iniziare le pratiche per diventare cittadino statunitense). Ma nelle sue parole c’è poco spazio per la memorialistica e molto invece per i ragionamenti sulle conseguenze del giorno più tremendamente “pop” del XXI secolo.

Iniziamo dalla domanda più classica: come ha vissuto il suo 11 settembre?
«L’ho vissuto con molta paura, perché il mio figlio maschio lavorava all’epoca in Campidoglio, in Parlamento. E realizzai molto in fretta che, dopo aver colpito le Torri Gemelle e il Pentagono, gli obiettivi successivi sarebbero stati la Casa Bianca e, per l’appunto, il Campidoglio. Cominciai a telefonare a Washington, dove io abito, praticamente sulla linea di volo che seguì l’aereo dell’American Airlines che andò a schiantarsi sul Pentagono. Dissero anche che ci poteva essere un quarto, un quinto e un sesto aereo: non ho avuto pace finché non capii che dopo il Boeing 757 caduto in Pennsylvania non ce ne sarebbero stati altri. Poi ebbi subito istintivamente un’altra paura: come avrebbe reagito l’America? Era una nazione guidata da un presidente debole, senza un vero mandato elettorale, che come tutti i presidenti deboli avrebbe potuto avere una reazione eccessiva. Quindi, più che paura fisica per me, fu paura per mio figlio e paura per quello che sarebbe successo nel mondo. La mia prima reazione fu che decisi quel giorno di avviare le pratiche per prendere la cittadinanza americana».

Fisicamente dov’era?
«Non ero nemmeno sul suolo americano. Io in realtà stavo dormendo e fui svegliato dal caposervizio di Repubblica: “Guarda che c’è un incidente aereo a Manhattan”. Accesi la tv».

Il secondo aereo si schianta sulla Torre Sud (Ap-Lapresse)

E vide che c’era la Torre Nord del World Trade Center in fiamme (foto), colpita probabilmente da un aereo. Fino al secondo schianto ci furono venti minuti per pensare a qualsiasi cosa.
«Ma io non pensai mai ad un incidente. Tante volte ero atterrato a New York e so che gli aerei non sorvolano Manhattan, ma girano intorno per andare in uno dei tre aeroporti, il Kennedy, il La Guardia o Newark. È così dal famoso incidente del 1945, quando il bombardiere B-25 Mitchell si schiantò sull’Empire State Building, uccidendo 14 persone. Non pensai mai a un incidente perché non poteva che trattarsi di un aereo di linea: un bimotore, un piccolo velivolo non avrebbe potuto fare quei danni, uno “sbrego del genere”. Poi, quando abbiamo visto il secondo aereo, è stato chiaro che era un attacco».

Era un attacco. Tutti si chiesero: chi era stato?
«Richard Clarke, responsabile dell’antiterrorismo, disse subito: “È un attentato ed è stata Al Qaeda”. Cosa che fece nascere subito sospetti: se erano così sicuri, perché non avevano fatto qualcosa per evitarlo? Invece all’inizio, noi “civili”, non è che pensassimo tanto ad Al Qaeda. E certamente non nei termini in cui è venuta fuori dopo, come una Spectre, una piovra internazionale. Si parlava invece molto di Iran: erano giorni di preoccupazioni sugli arsenali nucleari iraniani. Mentre non si parlava di Iraq. In ogni caso a nessuno sembrava un’ipotesi realistica quella di un attacco così coordinato e così forte che fosse stato ordito solo da fondamentalisti islamici, da jihadisti. Fummo veramente colti di sorpresa».

Tutti colti di sorpresa?
«No, non tutti. Ha detto una cosa molto interessante sempre Richard Clarke: “La sera stessa, tornando a Washington, alla Casa Bianca, quando con Bush facemmo tutte le riunioni di emergenza, il vicepresidente Dick Cheney mi chiese:
– Che obiettivi ci sono da colpire in Iraq?
Io gli risposi:  – Scusi, non ho capito, parla di obiettivi in Iraq?
E Cheney: – Sì, ci sono tantissimi obiettivi importanti da colpire in Iraq.
– Ce ne sono dappertutto di obiettivi importanti. Perché proprio in Iraq?”.
Avevano subito pensato che dietro agli attentatori ci fosse Saddam Hussein. Una cosa importante è la convinzione dei servizi segreti e della dirigenza americana che ci fosse comunque uno Stato dietro agli attacchi dell’11 settembre. Anche perché è più facile colpire uno Stato che un organizzazione terroristica ramificata, senza una capitale, amorfa. Fu un errore fondamentale».

Entrò in scena Bush ed entrò in circolo subito la dottrina Bush.
«Sì: “Esportiamo la democrazia”. “Liberiamo…”, ma soprattutto: “Noi non faremo distinzioni fra gli Stati che ospitano le organizzazioni terroristiche e le organizzazioni terroristiche”. Questo fu il fondamento per l’invasione – fin troppo facile, senza una vera operazione militare – dell’Afghanistan e poi per l’invasione dell’Iraq: “Se tu ospiti i terroristi sei un nemico dell’America da colpire”».

In una classe di scuola elementare della Florida George Bush viene informato dello schianto del primo aereo (Ap-Lapresse)

Una parola ricorreva dei discorsi della dirigenza americana e nei titoli dei giornali del giorno dopo: guerra.
«”We are at war”: Bush lo disse subito. Avevamo appena archiviato la scena della scuola elementare della Florida, in cui leggeva il libro “Io e la mia capretta” tenendolo alla rovescia, perché già sapeva del primo attacco. A proposito, chi pensa a un complotto “bushista” dovrebbe andare a rivedersi quella scena: o era un attore da Oscar o più verosimilmente era stato completamente colto di sorpresa.
“We are at war”. Alla guerra, ma contro chi? A questa domanda non è mai stata data una risposta soddisfacente. Suonò un po’ come: “Siamo in guerra con chi ci capita sotto”».

Sembrò quasi mancanza di lucidità. Perché?
«L’America non aveva mai visto una cosa del genere. A differenza dell’Europa o delle altre nazioni, che avevano conosciuto la guerra, il terrorismo, le stragi. L’assassinio di Kennedy? Non è paragonabile. Pearl Harbour? Era lontano 5.000 miglia (dalle coste americane) oltre che lontano 60 anni. Si creò un atteggiamento psicologico completamente inedito per tutti, dal presidente all’ultimo dei camerieri del McDonald’s. E per questo loro hanno perduto la testa: perché non c’erano riferimenti, né storici, né nella vita delle persone. Chi aveva fatto la guerra l’aveva fatta lontano, in posti come Vietnam, Corea. Ma non aveva mai visto niente di simile, e sottolineo la parola “visto”: dimentichiamo sempre che la potenza dell’11 settembre è che è stato filmato, è stato visto. Degli altri attentati abbiamo sempre solo visto le rovine fumanti. Prendiamo Lockerbie (260 morti in un aereo bomba nel 1988, ndr): pensate se avessimo visto il 747 della PanAm in fiamme avvitarsi, precipitare e sbriciolarsi pezzo dopo pezzo. Invece le uniche immagini furono, come al solito: il relitto, le scarpe, la borsa, il seggiolino, l’orsacchiotto del bambino e nient’altro».

Quindi gli americani erano completamente impreparati?
«Sì. Nel 2001 gli Usa si sentivano in cima al mondo: erano usciti da un decennio prosperosissimo, dal boom delle nuove tecnologie, da un nuovo paradigma economico. La Cina era ancora principalmente un mercato di lavoro a basso costo, non era ancora un concorrente. Quindi lo choc fu doppio: perché non era mai stato visto niente del genere e perché colpì dei simboli – i simboli sono facili da capire – del capitalismo americano e della potenza politica e militare americana. Che in quel momento era all’apice».

Degli eventi tragici del nostro tempo nulla sembra “competere” con l’11 settembre, perché?
«Sì, tutto questo clamore per tremila morti, si potrebbe cinicamente dire. Ma nell’immediato ci fu qualcuno che parlò – penso a Oriana Fallaci – di almeno 30.000 vittime. Nessuno sapeva quanti morti ci fossero sotto le macerie delle Torri Gemelle, sotto quello che i i poliziotti chiamavano in un gergo sbrigativo the pile, il mucchio. 1.000, 2.000, 10.000, 30.000 cadaveri? Questo aumentava l’incertezza. Poi c’era la reazione sentimentale (e superficiale) del “siamo tutti americani”. Ma non solo: c’era New York, una città che apparteneva a tutti. Sì certo, quando colpirono Oklahoma City (168 morti nel 1995, ndr) ci fu un massacro terribile: donne, bambini. Però: chissenefrega di Oklahoma City! Chi ci è stato mai? Io ci andai per la prima volta dopo l’attentato e capì perché non ci ero andato mai: non c’è niente, in Oklahoma!
New York invece appartiene a tutti, le Torri Gemelle appartengono a tutti: hanno colpito qualcosa di nostro. La prima reazione è stata: hanno colpito noi, non loro. Confermata poi dal fatto che tra le vittime c’erano persone di 70 nazionalità diverse, 70! Quasi metà delle Nazioni Unite!
Quindi il fatto di averlo visto, il fatto di aver visto cadere qualcosa che apparteneva a noi tutti, ai nostri sogni, ai nostri ricordi, anche al nostro odio – per chi odia l’America – ha reso l’11 settembre immediatamente universale».

Osama bin Laden con Al Zawahiri (Ap-Lapresse)

Un attentato che voleva parlare al mondo, quindi.
«Noi occidentali tendiamo sempre a sottovalutare i nostri avversari, a pensare che siano dei cavernicoli. Stavano nelle caverne, ok. Ma tutti sanno cos’è l’America. E poi molti di loro conoscevano l’Occidente per averci vissuto e studiato. Chi ha organizzato questa cosa l’ha calcolata molto bene, perché la differenza temporale fra il primo e il secondo attacco significava la certezza che il secondo attacco sarebbe stato filmato (guarda le foto qui, qui e qui). Perché ci sono centinaia di cineprese, c’erano i turisti. I telefonini filmavano meno di oggi, ma c’erano le piccole fotocamere digitali che erano in grado di fare riprese; sarebbero arrivate le stazioni televisive locali: infatti in 10-15 minuti erano tutte sul posto. Si sarebbero alzati in volo gli elicotteri, come si usa nelle tv americane per filmare l’incidente stradale o l’inseguimento del criminale. Quindi questa sfasatura temporale, che doveva essere poi accresciuta ancora dall’attacco a Washington che era previsto per mezz’ora dopo, era estremamente sofisticata, intenzionale da parte dei terroristi: non fu casuale. Perché il tutto era creare l’effetto, e ci sono riusciti. Volevano che l’immagine restasse scolpita nella nostra memoria, così come lo è restata. Una grande regia».


Scelte di regia per un film di sicuro successo.
Ma per il tempo in cui viviamo ha avuto più conseguenze l’11 settembre o il 15 settembre (2008, il crac di Lehmann Brothers)?
«Le due cose sono collegate perché la domanda vera che qualcuno sta iniziando a porsi è: ma chi l’ha vinta davvero la guerra iniziata l’11 settembre? Certamente non l’ha vinta l’America. L’America di 10 anni dopo non è una nazione più forte, più rispettata, più potente o più ricca di quanto fosse dieci anni orsono. L’America ebbe due reazioni: quella militare che era ovvia, per chi la conosce. È come avere in mano un gigantesco martello, che le costa 600 miliardi l’anno (guerre escluse) e che non può fare a meno di usare. Il proverbio dice: agli occhi del martello tutto il mondo è fatto di chiodi. Così, chi ha un’enorme forza militare come quella è tentato sempre di usarla.
Ma poi c’è stata un’altra reazione: quella di dimostrare al mondo che noi americani diventeremo  ancora più ricchi, più prosperi, più potenti. Il che ha portato a una politica fiscale scriteriata, i cui effetti vediamo oggi, con riduzioni di tasse fatte malissimo, fatte ideologicamente, per gonfiare la ricchezza nazionale, senza preoccuparsi di come questa si sarebbe distribuita: l’acqua è affluita verso l’alto, contrariamente alle leggi naturali. Devastando il bilancio pubblico, naturalmente. Ci fu un grande laissez faire: “Arricchitevi, non ci pensate, fate vedere che vivete alla grande”. L’appello del sindaco di New York Rudolph Giuliani, 48 ore dopo la tragedia, era: “Uscite, andate a comprare, andate negli shopping center, consumate”».

Cos’è successo poi?
«Che le finanziarie, le società che fanno di mestiere la speculazione – e non è mica una colpa: è il loro mestiere – si sono buttate a capofitto nelle opportunità che si presentarono, senza avere nessun impedimento, laccio o lacciuolo, dall’amministrazione Bush dopo che già Clinton aveva sciolto le briglie. Così sono esplosi i mutui subprime, i derivati, gli hedge fund senza controlli. La casa per tutti, il sogno americano. La gente veniva inseguita per strada dalle offerte di prestiti. Io venivo inseguito da gente che mi diceva: “Perché non compra una casa più grande? Perché non prende un altro debito? Come mai la sua carta di credito ha un limite di spesa di soli 5.000 dollari? Lo alzi a 20.000…spenda!”.
Scelte che misero in crisi la finanza pubblica. Un numero: quando Bush arrivò alla Casa Bianca gli Usa avevano un rapporto deficit/Pil in attivo del 2%. Ora sono in rosso dell’8-9%. Si è creata nell’era Bush un’immensa bolla dettata dal “fate soldi coi soldi, indebitatevi, comprate casa e così fate vedere a quei pezzi di merda che l’America risponde diventando ancora più ricca”. In effetti è avvenuto: i prezzi dell’immobiliare a Manhattan, che tutti immaginavano sarebbero crollati, sono schizzati al cielo dopo la metà degli anni Zero. Perché era facilissimo avere soldi.
Questo ha creato tutte le premesse per i crac del 2007, del 2008, da cui l’America non si è più ripresa. E occorreranno anni e anni perché si riprenda, indipendentemente da Obama. Questo è stato un effetto diretto dell’11 settembre 2001. Ci si è illusi di fare una guerra con la carta di credito finanziata dai cinesi e il conto è arrivato».

Perché l’America non è riuscita a trovare gli anticorpi per venirne fuori?
«Perché questa è la prima guerra della storia americana, e forse l’unica della storia del mondo, ma non mi voglio allargare troppo, in cui non sono state aumentate le tasse per pagarla. Storicamente guerra significa aumento delle tasse, sacrificio con il borsellino, insieme con il sangue. Questa invece è stata pagata a credito, facendo delle cambiali. È uno degli effetti nefasti dell’11 settembre. Perché se sul piano militare certamente Al Qaeda non ha vinto né pensava di poter vincere, sul piano dell’economia e del ruolo nel mondo l’America non si è più ripresa».

Quindi gli Usa sono come un pugile suonato che celebra il pugno che l’ha messo ko?
«Domenica ho preso una camera nel grattacielo più alto che sta attorno a Ground Zero, perché voglio guardare dall’alto: dal basso non si vede e non si capisce nulla. Ma mi chiedo: tutte queste celebrazioni, i monumenti, la fontana, la Freedom Tower che sarà finita nel 2013, sono fatte per che cosa? Questa è una guerra che non è finita. Se c’è un attacco terroristico da un’altra parte cosa facciamo, un altro monumento? Un’altra celebrazione? Di solito i monumenti si fanno quando il libro è chiuso: abbiamo perso, abbiamo vinto. Vietnam, Corea, guerra civile, quello che è: si fa un monumento ai caduti. Ma quando è tutto finito. È anche un’operazione pericolosa quella di fare un monumento a un evento che ancora sta avvenendo. Perché ancora sta avvenendo. Nessuno ha detto che la guerra al terrore è finita. O la guerra al terrorismo, che è ancora peggio, perché combattere un –ismo… Insomma che cosa guardo io, dall’albergo, quando mi affaccio in quel vuoto? Guardo il futuro, il presente, il passato? Boh, non lo so».

foto Ap-Lapresse

Il presente è quello di un’America ha perso compattezza, fra la delusione per Obama e le inquietudini rappresentate dal Tea Party.
«L’esito peggiore dell’11 settembre non è stato il diffondersi del cospirazionismo, che qui in Usa non ha mai davvero attecchito, mentre in Europa molti hanno pensato: “Gli Americani… sono dei maiali… se lo sono fatto da soli… volevano dominare il mondo” (se questo era il piano, non è che sia riuscito tanto bene). L’effetto tossico vero è stata una totale perdita di fiducia nelle istituzioni. Siamo quasi a livelli italiani. L’opinione pubblica non ha più fiducia in nessuna delle sue istituzioni. Si salva forse la Corte Suprema, che pure ha preso una botta tremenda dal caso Strauss-Kahn. Il presidente, sul piano personale ha ancora un certo appeal, ma sul piano politico sta peggio di Bush. Il Parlamento ha un gradimento del 10%. Il Tea Party, che sembrava in grande ascesa, è al 20%-25% di generica approvazione, non di voto. Quindi, resta una minoranza».

Che è successo agli americani?
«È stata la fine dell’età dell’innocenza, perché gli americani hanno sempre creduto – nonostante il Watergate, nonostante Clinton – che in fondo i migliori governassero. Ecco perché li menavano così duramente quando li beccavano coi pantaloni abbassati o a giocare con la costituzione, come è successo con Nixon. Adesso quasi ci si aspetta che siano una manica di cialtroni: un altro degli esiti negativi dell’11 settembre. Che ha spaccato insieme con le torri anche i monumenti della fede americana nella propria repubblica. C’era stato un momento in cui con Obama sembrava avessero trovato il “messia”, invece poi hanno scoperto che non cammina sulle acque. Lui l’aveva detto, aveva fatto una battuta durante la campagna del 2008: “La voce che io sia nato a Nazareth e cammini sulle acque è del tutto infondata”. Ma molta gente credeva nel “Yes we can”, nel “Change”. Non è cambiato niente: nell’economia, sul piano fiscale, la riforma della salute è stata un flop. E c’è un senso generale di sfiducia».

Sfiducia?
«Sì, un certo grado di indifferenza: qui delle guerre in Afghanistan e in Iraq non si parla più. Si pensa: “Sono fatte da volontari, da professionisti, da militari, noi li paghiamo, gli diamo le armi, gli vogliamo tutti bene, gli facciamo i nastrini, le cerimonie, le bandierine”. E poi finisce lì. Ora comincia il campionato di football e in ogni stadio ci sarà l’inno la banda, gente che piange, il veterano, il reduce che verrà celebrato. Però non riguarda tutti. Sono guerre che gli americani, così come non hanno pagate con le tasse, non hanno pagate con i propri figli, perché nessuno in questi anni rischiava di vedersi arrivare la cartolina precetto a casa. C’è una “casta” militare che se ne occupa, si fa ammazzare, che muore. “A me che me ne frega?”, pensa l’americano medio. Certo il prezzo l’hanno poi pagato con i crac, e caro.».

Quanto a perdita di credibilità, è stato fatto il massimo per capire cosa era veramente successo l’11 settembre?
«Ci sono tonnellate di inchieste. Per esempio quella ufficiale sul Pentagono è un gigantesco volume a disposizione di tutti che smantella ogni dubbio sul fatto che non fosse un aereo di linea. L’hanno praticamente ricostruito tutto pezzo per pezzo, quell’aereo. L’inchiesta sulle Torri Gemelle, quella sul famoso Wtc-7, l’edificio crollato ore dopo, è stata condotta dall’ordine nazionale degli ingegneri strutturalisti. Qui davvero nessuno crede al complotto, se non forse – reazione comprensibile – qualche parente delle vittime. Nessuno davvero crede che ci siano dei punti oscuri sulla meccanica degli attentati. Segnalo una cosa che ha colpito molte persone: “Meno di 72 ore dopo l’attentato già sapevano chi erano uno per uno i 19 terroristi”. Ma c’è un piccolo dettaglio: i 19 terroristi non avevano fatto niente per nascondersi. Avevano anzi quasi deliberatamente lasciato dietro delle tracce: avevano dato i loro nomi veri, avevano lasciato in giro i passaporti, erano passati sotto le telecamere di sicurezza. Quindi sembrò quasi che, come Pollicino, avessero voluto lasciare le briciole. Infatti li identificarono subito».

Quindi nessun dubbio, nessun punto oscuro?
«Ci sono dei dubbi, che non affronta nessuno: è su chi fossero quei 19 terroristi, da dove venissero e chi li controllasse. Se davvero fosse possibile che 19 dilettanti potessero pilotare quattro aerei con tanta precisione. Io vidi le rovine del Pentagono ancora fumanti, quando rientrai a Washington: è una zona che conosco bene, percorsa da strade, autostrade (quindi ci furono moltissimi testimoni oculari che videro il volo 77 dell’American Airlines a bassa quota). Non è mica una manovra facile. Non sono un pilota, ma portare un aereo di quelle dimensioni a velocità di crociera  a svolazzare intorno alle colline che ci sono intorno al Pentagono e a colpire un edificio che non è un grattacielo, ma è alto solo cinque piani… beh, richiede delle capacità che vanno oltre qualche ora passata con Microsoft Flight o qualche ora di lezione presa su un Piper monomotore in una scuola della Florida».

No, decisamente non roba da dilettanti.
«Poi erano quasi tutti sauditi, non c’era neanche un iracheno, né un afghano. Chi c’era dietro quella gente, c’era davvero soltanto Al Qaeda? Chi era Osama bin Laden? Lavorava da solo o per conto di qualcuno? E su questo punto, in America, sono tutti molto prudenti. Perché forse hanno paura. Ma non di trovare – lo dico chiaramente – le cazzate tipo l’esplosivo messo nelle Torri Gemelle o tipo il missile contro il Pentagono. Hanno paura di trovare dei mandanti che poi non possono affrontare. Che ruolo ha avuto il Pakistan in tutto questo? Perché poi l’abbiamo visto dov’era bin Laden: in Pakistan. Che ruolo ha avuto l’Arabia Saudita? Si dice da anni che ci siano in Arabia Saudita dei gruppi, parte dei servizi che in realtà fanno la guerra al regime. E quale modo migliore, che attaccare il principale alleato e puntello del regime saudita? Perché senza gli Stati Uniti nel 1991 forse Saddam Hussein sarebbe arrivato a Ryad, avrebbe preso tutta la penisola araba. È su questo che ci sono molte esitazioni ad andare a fondo. Su questo che ancora non abbiamo saputo tutta la verità: non su cosa fosse accaduto l’11 settembre, ma da dove venissero i terroristi e su cosa rappresentasse Al Qaeda e per chi lavorasse».

Domande alle quali l’uccisione di bin Laden non ha dato risposta?
«No. Anche se era una conclusione quasi inevitabile. Pensate cosa sarebbe successo con lui catturato vivo, con il processo. O con la reazione che il cadavere di bin Laden avrebbe provocato nel mondo: impensabile mostrarlo. La soluzione quindi era obbligata. Ma certamente lascia dei dubbi su di lui. E non sul fatto che Osama bin Laden non c’entrasse nulla con le Torri Gemelle. Lo ha detto: “È andata meglio di come pensassimo, io ero l’unico a essere così ottimista, a pensare che provocasse un guasto del genere, gli altri erano pessimisti” (pessimisti alla rovescia, ovviamente). Però Osama bin Laden era un regista o era una marionetta? Questa è una domanda alla quale avremmo risposta forse solo tra molti decenni. Ma la risposta non saranno certo le fregnacce dei complottisti che per ingenuità o per interesse hanno creato e alimentato l’industria multimediatica del complotto».

I complottisti non li può proprio vedere…
«Accetto tutto, ma i complottisti no. La vera ragione del complottismo non è il fatto che i governi ci mentano, quello lo sappiamo da sempre. È che noi non vogliamo rassegnarci, essendo un po’ tutti influenzati dalla cultura materialista, dal marxismo, dalle cause profonde, dalla spiegazione scientifica della Storia. Non vogliamo rassegnarci al fatto che la storia la possono riscrivere da una parte le idee, anche le più atroci ed esplosive, come quelle del fanatismo religioso, ma dall’altra anche un individuo o un piccolo gruppo. No, ci deve essere dietro una spiegazione molto più ampia, molto più complessa, più sinistra. La semplice spiegazione che questi 19 terroristi hanno concepito e realizzato gli attentati alle Torri Gemelle perché credevano, o gli avevano fatto credere, di reinstaurare l’Islam tradizionale, insidiato dall’infame materialismo delle minigonne e del secolarismo, non ci bastava. Ci doveva essere qualcosa di più. La cosa più terribile è scoprire che magari non c’è. In fondo è più rassicurante pensare che ci sia una longa manus, un complotto: che un gruppo di personaggi si riunisca una volta alla settimana a Wall Street e decida le sorti del mondo. Molte volte non è come nei film, la Spectre o Goldfinger non esistono, e questo ci dà molto fastidio».

Torniamo alle ore degli attentati. C’è un momento, dopo i tre aerei schiantatisi su Torri Gemelle, Pentagono e il quarto che era destinato al Campidoglio, in cui si pensa a una guerra in corso.
 «Chi fa il nostro mestiere spesso non ha il tempo di pensare, come si vede spesso da quello che viene pubblicato… Vivemmo tutti in uno stato di choc. Facemmo molta fatica a metabolizzare quello che era successo. Anche uno come me che aveva visto guerre, che era stato in via Fani la mattina del rapimento di Moro con i cinque agenti di scorta ammazzati. Cose brutte ne ho viste tante, come europeo e come giornalista. Però questa aveva una scala che non era del tutto comprensibile, proprio nel senso letterale di “comprendere”, di riuscire a prendere tutto insieme. Lavoravamo tutti meccanicamente, scrivendo a mano a mano le cose che vedevamo, che sentivamo dire, le impressioni, le ipotesi. Si pensi soltanto allo choc di Bush: l’Air Force One svolazzò sopra i cieli dell’America per ore e ore senza mèta, atterrando solo in due basi, una in Louisiana e una in Nebraska. Dove lui fu portato in rifugi anti atomici. La prima riunione che Bush fece con i suoi collaboratori fu in un bunker anti atomico».

Si faceva fatica a realizzare quello che era successo.
«È veramente come dopo la perdita di una persona cara, per un po’ vai avanti con quello che devi fare, c’è da organizzare il funerale, poi c’è il testamento, c’è da mettere via la roba, poi avvertire le persone… occorrono giorni e giorni perché tu ti renda conto di quello che è successo, se è una morte improvvisa come è stato improvviso l’11 settembre. Ancora adesso ogni volta che vado a New York penso di veder spuntare quelle due ciminiere, quei due fumaioli da nave che vedevi quando scendevi dall’autostrada 95 proveniente da Nord. È una specie di stupor, di sbalordimento in cui noi giornalisti eravamo, con la possibilità di scaricare tutto sulla carta o davanti a una telecamera. Facendo come dicevano gli alpini in Russia: andare mettendo un piede davanti all’altro senza preoccuparsi della direzione. Noi giornalisti eravamo come sonnambuli, in quelle ore. Ci trascinammo meccanicamente fino all’elaborazione delle conseguenze politiche, fino a quando fu chiaro che il numero di morti era quello che era, e non c’era stata quella strage di decine di migliaia di vittime di cui si era parlato in un primo momento. Quando fu chiaro che l’America non era stata decapitata dal punto di vista dell’amministrazione, che non era morto il presidente, non erano stati uccisi i generali… allora la necessità di analizzare poi prese progressivamente il posto del sonnambulismo. Io pensai subito che si sarebbe andati verso una guerra, pensavo ad una invasione massiccia dell’Afghanistan che poi non c’è stata: fecero un’operazione molto superficiale che come abbiamo visto non è servita a nulla, mentre avevano già deciso di andare in Iraq – oggi lo sappiamo».

George Bush sulle rovine di Ground Zero (Ap-Lapresse)

Ci fu un momento preciso in cui iniziò a mettere a fuoco quello che stava succedendo?
«Quando andai a New York a vedere Bush in piedi sulle rovine a dire, col “magone”: “Vi vendicheremo, questo non passerà impunito, li troveremo”. Su quelle macerie ancora fumanti che restarono roventi ancora per settimane. Di fianco ai pompieri. Lì capii che l’America aveva imboccato una strada dalla quale difficilmente sarebbe tornata indietro. Erano i giorni in cui i nostri punti di riferimento giornalistici, i commentatori progressisti, “liberal”, vennero contagiati dalla “falchite”. Paul Keller (che allora era un editorialista e che poi è diventato direttore del New York Times) scrisse: “Non posso credere di essere diventato un falco”. Era impossibile restare immuni alla “falchite” vedendo Bush in piedi su quelle rovine, sotto le quali c’erano ancora centinaia di resti umani, molti dei quali non furono mai identificati. Ma fu anche il momento in cui pensai che, ahimè, quella era una nazione che rischiava di perdere la testa: infatti l’ha persa».

Che ne pensa di come Bush gestì il dopo-11 settembre?
«Girava molto l’America per parlare, aveva ben chiaro che gli Usa hanno bisogno di un presidente-papà, non “papi”: papà, nel senso di pontefice, di avatar, di sciamano. L’America vuole che le si rimbocchino le lenzuola, che le si racconti una storiella prima di addormentarsi. Bush l’aveva capito e parlava moltissimo, ripetendo sempre le stesse cose. Fece anche bene a correggersi quando disse: “Noi non siamo in guerra contro l’Islam, siamo in guerra contro chi ci attacca”, dopo che gli era scappata la gaffe “questa è una crociata” che aveva mandato in bestia tutti.
Bush fece quello che poteva fare, era quello che era. Io, che non ho mai amato Bush, non credo che un altro presidente avrebbe potuto comportarsi diversamente: la spinta, lo tsunami di emozioni che aveva alle spalle lo avrebbero indotto a fare un’azione militare, certamente in Afghanistan.
L’Iraq è un altro discorso. Quello fu l’inizio della fine per l’America, che ha sempre bisogno di percepirsi moralmente superiore agli altri. “La città luminosa sulla collina”, come dice la Bibbia e come ripeteva Reagan. Oppure il “buono” dei film, the good guy: l’americano si deve sentire dalla parte dei buoni. Infatti Bush ripeteva spesso: “Noi siamo il bene e combattiamo contro il male”. E il senso di superiorità morale degli Usa ha subito una costante erosione in questi anni. È stato distrutto a Guantanamo, ad Abu Ghraib. Quella è stata la grande battaglia perduta di questa guerra: le torture, il waterboarding, l’extraordinary rendition, la consegna di prigionieri ai regimi perché li torturassero. Per non parlare dei “danni collaterali”, gli iracheni e gli afghani innocenti ammazzati da pallottole e da bombe».

Ha scritto su Repubblica un articolo sulle commemorazioni dell’11 settembre in cui ricorre spesso una parola: la fatica
«Sì, fatica. Sarebbe fatigue, è una parola difficile da tradurre in italiano. Significa spossatezza, la stanchezza dei soldati quando tornano dalla guerra. La chiamavano battle fatigue. Adesso danno nomi più complicati: “La sindrome da…”, perché devono dare nomi più complicati. È un sentimento molto presente negli americani anche se verrà “coperto” da tutto il cerimoniale. C’è anche in Italia in occasione di tutte le ricorrenze, si fa sempre più fatica a “frustarle”, come quando si frusta un cavallo stanco. Certo c’è chi ci crede ancora appassionatamente, al 25 aprile, al 2 giugno, al 4 novembre, ai 150 anni dell’Unità. Però col passare del tempo diventa sempre più difficile ritrovare la stessa carica nei sentimenti, la stessa sincerità. Ecco: c’è il rischio che fra la fatica si faccia largo molta insincerità in questa commemorazione».

Perché l’11 settembre è già un “cavallo stanco”, dopo solo 10 anni?
«Perché oggettivamente oggi gli Usa sono angosciati da altre cose. Se tu stai per avere la casa pignorata e non hai avuto un fratello, un cugino, una moglie o un marito, un figlio morti lì… l’11 settembre farai il tuo minuto di silenzio, la tua preghiera. Ma ti preoccupa di più il 12 settembre, quando lo sceriffo busserà alla tua porta per portarti via la casa e buttarti in mezzo alla strada. Questo è anche un po’ la forza dell’America: la propria concretezza, il proprio materialismo (per usare una parola grossa). Poi nelle guerre in Iraq e Afghanistan non ci sono stati i “figli del popolo” (nel senso dei figli di tutti) a combattere, ma ci sono sempre quei militari che ci vanno perché ci vogliono andare. Tutto questo è “altro da sé”. Allora sì: commuoviamoci ma poi fammi vedere la partita che inizia il campionato (di baseball). È una crescente indifferenza accompagnata a una crescente preoccupazione per il proprio lavoro, la propria casa, le pensioni che si stanno squagliando in borsa. Che rapporto ha la condizione presente dell’americano medio con l’11 settembre? Non ce l’ha. Quindi è la commemorazione è insincera e rischia di essere sempre di più artificiale».

Come può restare “sinceri” senza buttare tutto nel dimenticatoio?
«L’unica maniera di combattere questa guerra era quella di ripristinare la leva obbligatoria. Allora avremmo assistito a due reazioni: o i cortei per le strade, le cartoline-precetto bruciate in piazza, come col Vietnam nel 1968. Oppure una grande partecipazione popolare come dopo l’attacco a Pearl Harbour nel dicembre 1941 (che è l’unico altro caso di aggressione diretta di stranieri sul suolo americano). In cui la gente, i giovani, le donne avrebbero fatto la fila davanti ai centri di reclutamento per indossare l’uniforme e contribuire. Non avendo reintrodotto la leva, ci si trova a fare i conti con l’estraneità del fenomeno, che rende inevitabile l’artificiosità dei legami sentimentali con lo stesso. E poi, sarà davvero finita la guerra? A che cos’è quel monumento lì? A un orrendo attentato. All’inizio di una guerra che non è finita».

Tanti, intrappolati dal fumo, si lanciarono dai piani alti (Ap-Lapresse)

Quindi intorno a questa data si fa troppo spettacolo?
«Se non ci fossero stati i filmati, ce ne saremmo già dimenticati. Chi si ricorda più di Oklahoma City? A Madrid cosa fanno per la stazione di Atocha? E a Londra, per gli attentati alla metropolitana del 2005? Forse sull’11 settembre hanno un po’ esagerato e stanno esagerando ancora. Anche i media, con tutte queste rievocazioni, con i documentari: ci siamo assuefatti. Nemmeno quelli che volano dalle finestre fanno l’effetto terrificante che fecero la prima volta. Tutto diventa il film già visto per la milionesima volta».

Però l’iperesposizione mediatica qualcosa di buono ce l’ha…
«Sì, che è anche un antidoto al terrorismo. Anzi è la vera grande sconfitta del terrorismo: dopo che hai rapito Moro, chi rapisci? Dopo aver fatto crollare le Torri Gemelle e mezzo Pentagono, cosa fai? È quello che chiamano nel gergo dello spettacolo “il numero da circo”: dopo che hai lanciato tre palle in aria, e dopo che nei hai lanciate quattro, dopo che ne hai lanciate cinque, quante palle devi lanciare per attirare l’attenzione del pubblico? Quale altro choc potrà essere più forte? Potrebbero rispondere: la bomba atomica, le radiazioni, la guerra batteriologica o chimica. Certo, però, più diventa complesso il piano, più diventa facile sventarlo. Si dice che fino ad ora sono stati sventati 30 attentati: sarà anche un calcolo del pizzicagnolo, alla “aggiungi un’altra fetta”, ma sicuramente adesso è tutto molto più difficile. E il fattore limitante del terrorismo, ripeto, è il terrorismo stesso. A un certo punto le Brigate Rosse si saranno dette: “Spariamo ai giornalisti, ammazziamo i magistrati, rapiamo un presidente, ma che c… dobbiamo fare oltre a quello che abbiamo fatto?” Il terrorista vuole creare terrore, ma se al terrore ci si abitua, la ferita si cicatrizza e di conseguenza si sente forse anche meno il dolore. E questa forse è la morale di questo 11 settembre. 2011».

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