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Macché Traviata: alla Scala va in scena la fine dell’Italia. Filippo Facci su Libero

di Gianluca Pace |4 Dicembre 2013 13:27

Macché Traviata: alla Scala va in scena la fine dell’Italia. Filippo Facci su Libero

ROMA – “Macché Traviata, alla Scala, tra Verdi e Boldrini, va in scena la fine dell’Italia” scrive Filippo Facci su Libero.

Ecco l’editoriale:

Soprattutto sarà dura, sabato sera, nella consueta cornice lorsignori/contestatori, non intravedere il paradosso finale del Palazzo e della sua separatezza; oltre ai presidenti della Repubblica e del Senato, infatti, non mancherà anche la simbolica presidente della Camera Laura Boldrini, marchigiana a veder la cortigiana: mentre fuori, a contestare, non mancherà neppure una scontata rappresentanza del partito che l’ha votata, Sel. Anche se quest’anno, con aria che tira, c’è il rischio che ortaggi e uova vengano riciclati e messi in pentola.

È questa – prima di ogni altra considerazione – la Traviata del 2013. Traviata è l’Italia, traviata da se stessa, dalla crisi che nell’opera manda in scena una borghesia ipocrita brindisi, i zum-pa-pa odiati dagli antiverdiani (come lo scrivente) e storie d’amore, d’amorazzi, di feste, di gossip, di sbevazzate e di soldi. Un’opera così italiana che Verdi fu ispirato da un libretto francese (Alexandre Dumas) prima che un libretto spagno- lo ispirasse opere successive. Non conta se La Traviata sia ambientata a Parigi (come dovrebbe essere) oppure a Roma (come potrebbe essere) oppure a Istanbul (come al San Carlo l’anno scorso: da arrestarli) e non conta neppure se sia ambientata a metà Ottocento o nella Bell’Epoque o nel barocco Seicentesco: rimanda comunque a un tardissimo impero, a un cafonal danzante nel declino morale, a un Paese che espone in vetrina una Traviata che, a sua volta, suona come souvenir d’Italie, come se all’ingresso e dapprima opulente, sopra le proprie possibilità: e poi termina, nell’ultimo atto, in una casa disadorna, svuotata di mobili e cimeli svenduti. Eccolo il declino.

L’aria più celebre della Traviata resta «Addio al passato». Intanto sul proscenio si alternano valzer, di Venezia suonassero Le quattro stagioni di Vivaldi, come se a Napoli il mandolino. La Traviata ci rappresenta come il mangiar bene, l’ele – ganza e, appunto, il belcanto. A Hollywood continueranno a premiare le pellicole in cui siamo un po’ ladri di biciclette e un po’ meridionali. E alla Scala continueranno a spellarsi le mani per la Traviata. Ma il Verdi della Traviata, ormai, aveva poco di risorgimentale e poco di patriottico: se ne stava a Sant’Agata con Giuseppina Strepponi, che quando la gente la vedeva (la gente, le infinite famiglie Germont di questo Paese) cambiava marciapiede perché lei non era politically correct, non era sposata. E dire che Verdi, la sua versione della Traviata, l’aveva pure edulcorata: Violetta, la traviata, alla fine si sacrifica per salvare il decoro familiare del suo amante: vuole «gioir, sempre libera». Sinché non sopraggiunga la vecchiaia e il modello smetta di reggere: e vai di metafora. Il libretto originale, quello francese di Dumas, racconta oltretutto una storia più spinta: Violetta in realtà ha un tenore di vita talmente alto che un amante solo non basteterebbe, tanto che ne ha quattro e vuole tenerseli. E Alfredo accetta. Se la tiene così, sissignori: libera e cortigiana, ambigua, innamorata dell’amore e dei soldi, scopata praticamente da tutti. Qui passa lo straniero. E vai di metafora. A veder La Traviata, notoriamente, si piange. A non vederla, di questi tempi, pure.

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