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Michele Ainis: “L’antipolitica? Colpa della sinistra”

di Gianluca Pace |3 Aprile 2015 16:29

Michele Ainis (foto Lapresse)

ROMA – “Se non si affrontano e si temperano il più possibile le diseguaglianze fra Nord e Sud del mondo – dice, intervistato da Italia Oggi, il costituzionalista Michele Ainis – avremo guerra, terrorismo e crisi economica. Perché va ricordato che la grande depressione del 1929 la avemmo quando negli Stati Uniti si registrarono punte di diseguaglianza mai viste prima. Senza dimenticare che le eccessive diseguaglianze, all’interno degli Stati sviluppati, generano il fenomeno dell’antipolitica”.

Professore, lei nella prima parte del libro elenca tanti esempi di diseguaglianza diffusa che possono avvelenarci la vita. Perché?

Risposta. Intanto perché, come tutti, non vivo sulla Luna, ma sulle strade, anche difficili, di una città come Roma. La molla, insomma, viene dal mio vissuto.

D. In che senso?

R. Per esempio, qualche anno fa, per una serie di contravvenzioni non pagate, dato che non mi erano mai state notificate, mi sono trovato la casa ipotecata.

D. All’insaputa…

R. Esatto. L’ho scoperto andando in banca a chiedere uno scoperto irrisorio ma per il quale occorreva al funzionario una visura patrimoniale.

D. E che successe?

R. Che la direttrice mi chiamò dicendomi: «Professore, non possiamo, perché lei ha la casa ipotecata». E quando risposi che ne ero consapevole, avendo acceso un mutuo per acquistare proprio quell’abitazione, la direttrice mi spiegò che si trattava di un’altra ipoteca. Ne scrissi sul giornale e finii in tv per quella vicenda, con l’Agenzia delle entrate che mi rispose. Ho sperimentato anche io la mia dose di ingiustizia.

D. E quindi si è applicato, di buzzo buono, a catalogare un bel po’ di misfatti.

R. Sì, ma il senso di questa brutta favola è che molta parte del malanimo e del risentimento del cittadino verso chi ci governa nasce anche dallo stillicidio di vessazioni burocratiche e fiscali, come quelle dei molti casi che cito. Alcune delle quali derivano anche da una falsa idea di eguaglianza, che non distingue fra casi diseguali.

D. Per esempio?

R. Per esempio che se a me fanno una multa da 100 euro e la fanno al pensionato da 500 al mese, la cosa può apparire giusta, ma non lo è.

D. C’è un errore prospettico. Ma lei lo ripete spesso nel libro, quando cita don Lorenzo Milani, il quale diceva che non si può far parti uguali fra diseguali. O Anatole France..

R. Sì, quando diceva che «la legge, nella sua maestosa equità, proibisce tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti».

D. Esatto.

R. Ma, vede, io vengo interpellato anche due volte al giorno per parlare di legge elettorale.

D. E quindi?

R. E quindi ci sono questioni molto più centrali, come queste, che invece passano in sordina. Ora, è facile dire che la questione non riguarda solo l’Italia ma tutta l’umanità, ma si deve anche ammettere che, se non si affrontano e si temperano il più possibile le diseguaglianze fra Nord e Sud del mondo, avremo guerra, terrorismo e crisi economica. Perché va ricordato che la grande depressione del 1929 la avemmo quando negli Stati Uniti si registrarono punte di diseguaglianza mai viste prima. Senza dimenticare che le eccessive diseguaglianze, all’interno degli Stati sviluppati, generano il fenomeno dell’antipolitica.

D. Ci sono fatti, forse meno drammatici di quelli appena evocati, che sono più avvertiti di altri, in fatto di eguaglianza oggi. Penso alle differenze di genere per le quali oggi, in Italia, c’è una spiccata sensibilità.

R. Noi arriviamo sempre dopo e sempre tardi. E spesso facendo la caricatura di esperienza altrui.

D. Vale a dire?

R. Facciamo l’esempio di questo governo che quando si occupa delle differenze sessuali, meritoriamente peraltro, lo fa promuovendo in posizione apicali molte donne.

D. Allude alle molte ministre dell’esecutivo di Matteo Renzi?

R. Non solo a loro, penso anche ai vertici di Eni, Poste e Enel, con Emma Marcegaglia, Luisa Todini e Patrizia Grieco.

D. Non va bene?

R. Va benissimo, spesso un gesto è piú potente di una legge, perché la parità di genere, quando viene praticata nei fatti, anziché declamata in astratto, esprime un valore pedagogico, concorre a rovesciare il pregiudizio che ha fin qui ostacolato la piena emancipazione delle donne. Purché…

D. Purché?

R. Purché non diventi regola perenne, impermeabile rispetto alle situazioni e alle stagioni della storia. Purché non sia una regola di ferro, senza flessibilità, senza capacità d’adattamento ai casi della vita.

D. Le quote non van bene…

R. Le quote sono offensive perché, alla fine, impediscono la gara. Meglio l’affirmative action, ossia l’azione positiva, che consiste in un vantaggio di legge per la categoria svantaggiata. Ciò permette di rendere quella gara giusta senza negare la competizione.

D. È il sistema, cosiddetto dei goals, ossia nel dare un bonus di partenza in più a chi è penalizzato, per genere o appartenenza etnica.

R. Sì, bisogna battere quel pregiudizio sociale che, come un tarlo, lavora sotto la superficie, per cui una donna non può fare il primario. E il bonus aiuta, dopodiché quella donna deve dimostrare di essere brava.

D. In politica, si è fatto, nei congressi del Pd, ma anche nelle preferenze alle europee, col sistema dei ticket, un uomo-una donna.

R. Forse si potrebbe assegnare un pacchetto di preferenze automatiche alle candidate e poi comunque contare le preferenze complessive, ossia stabilire dei goals anche in quel caso.

D. Sempre in tema di attualità, nel libro lei si spinge a riproporre le gabbie salariali che, nel nome dell’eguaglianza, furono abolite nel 1969.

R. Certo, perché con uno stesso stipendio a Milano o a Ragusa, dove il costo della vita è molto diverso, si finisce per pagare qualcuno il doppio.

D. Lo dice anche la Lega di Matteo Salvini.

R. Massì, perché la sinistra ha scelto da tempo di non occuparsi più di diseguaglianze. Lo scrivo nell’ultimo capito: l’eguaglianza è orfana della sinistra, per cui lascia ai radicali il compito di declinare quel tema in fatto di religione, o a certi circoli liberali quello delle diseguaglianze economiche che hanno a che fare col sistema degli ordini professionali.

D. È accaduto perché la sinistra, sulla via del riformismo, ha finito per smarrire una certa idealità?

R. Temo di sì. Norberto Bobbio diceva che l’eguaglianza è la sua stella popolare e invece la sinistra si occupa ormai del giorno per giorno, della pratica quotidiana, del mettere gli uomini nelle poltrone. E ignora questo tema.

D. Senta, siccome questo profilo di sinistra si presta a evocare Renzi, osservo che con gli 80 euro il capo della sinistra ha fatto, secondo alcuni, una grande operazione di redistribuzione, ossia di giustizia.

R. È vero, stando ai governi a guida di sinistra, nessuno aveva messo in pista un’operazione così imponente, perché si è trattato di alcuni miliardi. Però…

D. Però?

R. Però è anche vero che si è data una banconota a una categoria più garantita di altre. C’è tutta una classe di persone senza reddito, che non incassano gli 80 euro. Come se si trattasse di persone perdute, non recuperabili. A meno che il messaggio non volesse essere anche di dare un po’ di ossigeno al ceto medio.

D. Che lei, citando Amartya Senn, ricorda essere il motore della democrazia. Sempre sulla politica, lei rammenta le diseguaglianze diffuse fra elettori ed eletti. E cita il famigerato «uno vale uno» grillino.

R. Un’utopia inattuabile, però non sarebbe male arrivare almeno a «uno e mezzo vale uno», ossia bisognerebbe fare qualcosa per ridurre la distanza fra chi governa e chi è governato.

D. Propone di limitare i mandati, cosa che in Italia non è contemplata.

R. E invece negli Stati Uniti è rigorosa ma lo si potrebbe anche fare armando i cittadini di strumenti di controllo autentici come i referendum abrogativi che, da noi, sono figli di un Dio minore: il voto popolare, come nel caso dell’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, può essere anche frodato.

D. Lei parla anche del cosiddetto recall, previsto in America e in Svizzera, ovvero la possibilità di richiamare gli eletti, praticamente di dimissionarli, quando indegni o inefficaci.

R. In maniera regolata, con una parte importante, circa un quarto, degli elettori, in modo che non siano a deciderlo tre persone al bar, e in un certo periodo, evitando così che non sia possibile innescare il meccanismo, da parte di chi perde, a pochi giorni dal voto.

D. Le devo fare anche io la domanda sulla legge elettorale, professore.

R. Prego…

D. Che tasso di ingiustizia c’è in questo Italicum, che alcuni vedono come il fumo negli occhi? R. Non entro nelle questione dei premi di maggioranza, ma osservo che avremo un partito col 54%, da una parte, e, dall’altra, una marmellata di partiti di minoranza perché, con una soglia al 3%, potranno entrare in tanti. Sarebbe stato meglio uno sbarramento dell’8%.

D. Ma non sarebbe stato più ingiusto?

R. Avrebbe ridotto e concentrato i partiti di opposizione e quindi creato una possibilità maggiore di controllo e di bilanciamento. Però, da costituzionalista, devo dirle che questa legge ha un altro problema, tale che Sergio Mattarella si potrebbe trovare in difficoltà a firmarla.

D. E quale, professore?

R. Che è tagliata su una camera elettiva quando, a oggi, ne abbiamo due. E la clausola di salvaguardia, che ne prevede l’applicazione solo dopo il 2016, non regge. Nessuno può garantire che, a quella data, la riforma del senato sia andata in porto.

D. Un libro, professore, che contiene molti ragionamenti politici, alla fine.

R. L’altro giorno, presentandolo, Laura Boldrini, Giovanni Pitruzzella e Massimo Giannini mi hanno detto tutti, più o meno, che sembra quasi un manifesto politico.

D. E lei?

R. Ho tranquillizzato tutti. Non fondo un partito (ride).

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