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Roma, Zeman e la disciplina. Ma prima di lui Spalletti, Ranieri e Luis Enrique..

di Emiliano Condò |12 Maggio 2022 17:57

ROMA – Luciano Spalletti, Claudio Ranieri, Luis Enrique e Zdenek Zeman. Quattro uomini diversi, quattro allenatori diversissimi. Tutti con in comune un’esperienza da allenatore della Roma. E tutti, tranne chi quella panchina ancora la occupa, con in comune l’essersene andati sbattendo la porta rinunciando a parte dei tanti soldi che per contratto gli spettavano.

Zeman, per ora, su quella panchina ci resta.  Confermato dopo un “chiarimento” con la società, la stessa società che 24 ore prima aveva detto, per bocca di Claudio Sabatini, che valutava anche l’esonero.

Al di là del contingente succede però che quattro allenatori diversi dicano, a distanza di anni, la stessa impietosa cosa. Che a Roma per motivi che hanno a che fare con lo spogliatoio e l’organizzazione non si riesca a lavorare come si dovrebbe. Lo dicono ciascuno a suo modo, chi puntando sulla disciplina, chi sugli alibi, chi sulla stanchezza di una piazza che “consuma”. Ma la sostanza, da qualche anno a questa parte resta la stessa.

Anno 2009. Sulla panchina della Roma siede Luciano Spalletti. La stagione, la sua quinta da allenatore dei giallorossi, dura però solo due giornate. Il tempo di perdere 3-2 a Genova e 1-3 in casa con la Juventus. A quel punto il tecnico di Certaldo, l’uomo del 4-2-3-1 spettacolare e dei fraseggi a tutta velocità, capisce che il giocattolo è rotto. Va a Trigoria da Rosella Sensi e si dimette. Dimissioni irrevocabili che Spalletti spiega con queste parole: “Me ne vado perché non vedo più i comportamenti giusti”. 

Il giorno prima, commentando a caldo la sconfitta con la Juve, aveva attaccato in modo frontale i suoi giocatori con il “famoso” discorso del “tacco punta”. Spalletti parlò di una squadra molle, che non fa contrasti e pensa solo a giocare “tacco-punta”. Parlava sbattendo più volte nervosamente la mano sul tavolo. Preludio della porta dello spogliatoio sbattuta definitivamente il giorno successivo dopo 4 anni di calcio quasi sempre spettacolare.  Curiosità di archivio: per la proprietà di allora della Roma la colpa è di Spalletti, quello che “ha abbandonato la barca”.

Subito dopo Spalletti arriva chi da quella idea di calcio è forse il più lontano in assoluto, Claudio Ranieri da Testaccio. Che a Roma per un anno fa egregiamente quanto promesso: poco spettacolo (eufemismo) e molta sostanza. Calcio bruttino (altro eufemismo) ma per un periodo abbastanza breve così efficace da portare la Roma a un soffio dallo scudetto. Solo che dopo meno di due anni anche il giocattolo Ranieri si rompe. E’ il 20 febbraio 2011, una Roma in crisi va a Genova.  Inaspettatamente tutto si mette benissimo, o almeno sembra. Dopo una manciata di minuti il tabellone dice Genoa-Roma 0-3. Poi si spegne la luce e si spegne la gestione Ranieri: la Roma incassa quattro gol per una sconfitta che rimarrà nella storia.

E cosa dice il tecnico di Testaccio? Dice che si dimette “per dare una scossa al gruppo” perché i giocatori “non devono più avere capri espiatori”. E non risparmia neppure il capitano, quel Francesco Totti che anche a fine rapporto con Spalletti aveva avuto qualche scambio polemico a distanza:  “Totti? – dice Ranieri –  È la bandiera della Roma, ma nello spogliatoio è molto più solo di quanto non appaia”.

L’anno successivo cambia tutto. Cambia dirigenza, cambia proprietà, cambia quasi tutta la rosa. E ovviamente, dopo una breve parentesi con Vincenzo Montella,  cambia anche l’allenatore. Dalle Asturie arriva Luis Enrique, l’uomo che doveva portare il tiki-taka a Roma. E che invece a Roma porta pochissimi risultati, tanti gol presi e il record inutile del possesso di palla e la sensazione di un anno di “progetto” buttato via.

La dirigenza, nonostante i risultati dicano che la Roma è per la prima volta dopo anni fuori dall’Europa, vorrebbe confermarlo. E invece Luis Enrique a fine anno si dimette. E ancora una volta spiega:  “Ho sempre detto che non mi sarei mai attaccato alla sedia e quando avrei visto che ero un peso per la squadra sarei andato via. Me ne sono accordo dopo la gara di Firenze. Sono stanco”.

Stanco, ovvero logorato dopo un anno di pallone con una società che lo difende come se fosse una specie di messia. Soprattutto stanco di sentirsi un peso per la sua stessa squadra. La traccia che lascia Luis Enrique non è indelebile, ma sta di fatto che è il terzo allenatore su quattro a lasciare soldi e squadra.

Il resto è cronaca. Cronaca di una Roma che allora ricomincia da Zdenek Zeman, l’utopista del 4-3-3, l’uomo degli allenamenti massacranti, delle poche parole ma pesanti e dalla difesa (molto) leggera. Zeman inizia ad allenare nel solo modo in cui sa allenare, gradoni, doppie sessioni e scelte sul campo pensate sul “sistema” e non sul singolo.

Ma la stagione, tra errori suoi ed errori di chi non gli ha consegnato una squadra adeguata, si trasforma in un calvario. Si inizia con la posizione di De Rossi che Zeman vede lontano dalla cabina di regia e talvolta lontano dal campo. Poi ci sono le discussioni con lo stesso De Rossi e con Osvaldo (tenuti fuori per scarsa professionalità), una discussione con Burdisso, una con Castan. Poi nell’ordine, al momento della sostituzione, contro la panchina inveiscono prima Miralem Pjanic e poi Marquinho. L’ultimo a parlare, lontano da Roma, è il portiere Stekelenburg, che se la prende con chi, Goicoichea, gli ha tolto il posto.

Che la scelta del tecnico sia “stravagante” è cosa che mette d’accordo gran parte dei tifosi romanisti, gli stessi tifosi che a maggioranza sono favorevoli a tenere Zeman in panchina. Sta di fatto che le parole di Stekelenburg sono forse la goccia che fa traboccare il vaso. Zeman arriva in conferenza stampa e al contrario dei suoi predecessori non si dimette. Forse, come ha scritto Mario Sconcerti si “autoesonera”. Forse, più semplicemente, fa solo Zeman. Ovvero dice quello che pensa, anche se quello che pensa rischia di metterlo fuori dalla Roma:  “Servono regole e disciplina. Senza queste componenti, non potrà mai esserci una squadra”.

La dirigenza della Roma, chiamata in causa quanto i calciatori la prende male e risponde. Pensa all’esonero. Esonero che per ora non arriva. Come non arrivano le dimissioni di Zeman. Restano invece le parole che si sommano a quelle dei predecessori. Per Spalletti i comportamenti erano scorretti. Ranieri si sentiva un capro espiatorio e voleva che la squadra avesse una “scossa”. Luis Enrique, dopo meno di un anno, si è sentito di troppo. Si è sentito un peso, come chi parla e viene ascoltato distrattamente. Ora Zeman parla di “regolamenti, discipline” e come Spalletti, di “comportamenti”. Quattro uomini e quattro allenatori troppo diversi per vedere le cose in modo così simile senza che le cose siano davvero molto simili.

Volendo si potrebbe tornare ancora più indietro, all’annus horribilis dei cinque allenatori con la Roma che stava per finire in serie B. Uno di quei cinque allenatori era un “tedesco di Roma”, Rudi Voeller. Accettò l’incarico rinunciando a un ruolo di dirigente a casa sua in Germania. Tutto per il richiamo della Roma. Durò meno di un mese. Dimissioni presentate perché, a questo punto non è una sorpresa, a “Roma non c’è disciplina” e “non riesco ad ottenere dalla squadra quello che chiedo”. Un altro di quegli allenatori che si dimise, quell’anno, era Cesare Prandelli. Nel suo caso, però, c’erano questioni private dolorose. Certo il contesto non proprio sereno di quella Roma non fu un incentivo a rimanere.

La domanda sorge oziosa quanto spontanea: ma è davvero soltanto un problema di allenatore?

 

 

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