
ROMA – “Da mesi – dice, intervistato dal Fatto Quotidiano, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat – assistiamo a un desolante caos dei dati sul mercato del lavoro, che indebolisce l’Istituto e disorienta i cittadini: il loro uso è fondamentale per la democrazia”.
Presidente Alleva, partiamo dai dati sull’occupazione: a giugno sono tornati negativi. Il ministro Poletti ha parlato di “fluttuazioni tipiche di una fase di ripresa”.
I dati congiunturali, mese per mese, sono molto altalenanti, mostrano incertezze e fragilità importanti. Qualcosa però si muove: al di là delle oscillazioni mensili, le tendenze sono lievemente positive su base trimestrale, le risorse di lavoro impiegate dal sistema economico crescono. Seppur con numeri non importanti, anche il mercato del lavoro potrà migliorare. Le misure in campo sono tante e l’economia è da mesi in una fase nuova, di crescita lieve.
Perché il lavoro non sembra agganciarsi alla ripresina?
Prima si recuperano i giocatori in panchina, le persone in cassa integrazione, poi aumentano i contratti interinali, e solo alla fine ci sono i segnali sui posti richiesti dalle imprese. Manca la parte finale perché le prime due assorbono la quota di crescita che per ora abbiamo.
Si fatica a districarsi tra i numeri sul lavoro: oltre all’Istat, negli ultimi mesi anche il governo ha dato grande risalto a quelli delle comunicazioni obbligatorie del ministero (sul lavoro dipendente) e ai dati dell’Inps.
Abbiamo assistito a un caos poco edificante di cui anche i giornalisti hanno un’ampia responsabilità. Quelli forniti dal ministero e dall’Inps sono dati di fonte amministrativa, non “statistiche”. Valutare il saldo tra attivazioni e cessazioni dei contratti come se fosse un aumento di teste, cioè di occupati, è una approssimazione non accettabile. Il governo fa il suo mestiere, ma a me preoccupa molto quando si sbandierano dati positivi dello 0,1%, anche perché poi – come si è visto – portano a fare dietrofront il mese dopo. Sento la responsabilità anche personale di questa confusione. Stiamo studiando con ministero, Inps e Inail come valorizzare e integrare tutte le informazioni disponibili in modo che riproducano un quadro coerente e di elevata qualità. Conto di poter presto produrre trimestralmente un’informazione congiunta sul lavoro, e un rapporto annuale in co-titolarità.
Non c’è il rischio che così il governo acceda ai dati prima della loro pubblicazione?
No, il governo li conoscerà dopo le dieci di mattina come tutti quanti. Ogni ente è però geloso dei propri dati. Dobbiamo abbandonare le logiche proprietarie. La statistica è vitale per la democrazia: non si detiene il potere grazie a un uso spregiudicato dei numeri, è sbagliato. Noi ci stiamo muovendo diversamente e da settembre l’informazione trimestrale su occupati e disoccupati uscirà congiuntamente agli input di lavoro delle imprese e introdurremo intervalli di confidenza per consentire a tutti di tenere conto dei fisiologici problemi di precisione delle stime campionarie. Non siamo infallibili. Il ministero e l’Inps possono fare dei loro dati ciò che vogliono: io voglio sfruttare queste informazioni dal punto di vista della statistica ufficiale, poi se un ministro vuole usarli per fare le sue uscite non spetta a me commentare.
Ci sono ormai decine di sigle che sparano numeri a raffica, rilanciati dai giornali.
I media dovrebbero essere in grado di distinguerne la qualità, ma non avviene. In altri Paesi quando vengono prese decisioni che si fondano su dati sbagliati, le associazioni dei consumatori protestano. Ma peggio dell’uso sbagliato, mi preoccupa il non uso. Le decisioni non sono supportate dai dati.
La disoccupazione giovanile continua a crescere. La Garanzia giovani sta funzionando?
I risultati non ci sono stati. Le cose vanno fatte bene, e trovati forse altri strumenti, come per esempio il reddito minimo.
Dal governo lo hanno definito uno strumento “assistenziale” e “incostituzionale”.
Può servire a ridurre le disuguaglianze. Abbiamo fatto un’analisi sulla proposta del M5S, che erroneamente l’ha presentato come “reddito di cittadinanza”, mentre invece loro hanno studiato un reddito minimo selettivo. Ridurrebbe di molto la povertà ed è ben congegnato perché proporzionato al reddito e versato al singolo, che così ha autonomia di scelta. Andrebbe però attuato bene per evitare che incentivi il lavoro nero, su cui l’Italia non ha mai fatto vere politiche di contrasto. Costa 14,9 miliardi, ma non è all’ordine del giorno. Così ci priviamo di una misura di welfare adottata in gran parte dei Paesi europei.
Nei primi tre mesi dell’anno la crescita è stata dello 0,3%, nel secondo trimestre stimate un +0,2. Sono numeri confortanti?
C’è stata una ripresa della domanda interna, degli investimenti e delle scorte, penalizzata però dalla debolezza dei consumi: è cresciuto il risparmio. L’export ha fatto la sua parte, confermando la competitività delle nostre imprese, ma sono cresciute – e molto – anche le importazioni. Non abbiamo grande spinta, e le famiglie temono ancora per il futuro. Il 14 conosceremo i numeri, non dovrebbero esserci sorprese, dato l’andamento dei diversi indicatori congiunturali. Siamo fuori dalla recessione, ma la vera crescita è un’altra cosa.
L’Istat ha stimato un aumento del Pil dello 0,7% nel 2015. Cosa manca?
Se riuscissimo a ottenere tassi di crescita rilevanti e costanti, superiori all’1%, potremo vedere risultati apprezzabili anche sul lavoro. Invece cresciamo meno degli altri grandi Paesi europei. Siamo contenti di vedere il segno + ma servirebbe un’espansione molto più pronunciata.
Per il Fmi l’Italia impiegherà 20 anni per riportare la disoccupazione ai livelli pre-crisi.
In quell’analisi mancano le riforme che ogni governo dovrebbe fare. In seno a questi organismi, si dibatte invece sul fatto che elevati tassi di disoccupazione siano fisiologici, vista l’evoluzione tecnologica. Gli Usa ci dimostrano il contrario.
Gli sgravi per le assunzioni stabili non bastano?
Creano le condizioni migliori per assumere, ma per ora non stanno alzando l’occupazione. Li hanno sfruttati le piccole imprese, quelle più grandi hanno bisogno di più tempo. Ma gli imprenditori assumono se percepiscono segnali stabili di ripresa della domanda, soprattutto interna. E il lavoro lo si crea investendo nel capitale umano e nelle infrastrutture.
Il Jobs Act sta funzionando?
È presto per dirlo, i conti li faremo alla fine dell’anno. A oggi gli effetti non appaiono straordinari, sembrano esserci soprattutto sulle stabilizzazioni dei contratti precari, che non è poco.