L’ultimo diktat in sei punti viene dalla Unione Europea. Dicono al Governo italiano che è stata sospesa la procedura di infrazione per eccesso di deficit, ma gli danno anche una ricetta, come dal medico.

Basterebbe ci dicessero: tenetevi Imu e aumento Iva, invece ci dicono anche un po’ di cose che dobbiamo fare. Peccato che in quello che ci chiedono ci sia una contraddizione insanabile tra due obiettivi: rigore e espansione in cui si riflette la contraddizione di fondo tra le due anime che oggi combattono fra loro in Europa.
Le contraddizioni balzano agli occhi se si legge il Corriere della Sera del 29 maggio, alla pagina che espone in dettaglio la nuova ricetta europea. Come si può conciliare questa prescrizione:
1. Le richieste di Bruxelles Finanza pubblica, l’obiettivo del debito a quota 60% :
Consolidamento dei conti pubblici, cioè bilanci in ordine: avanti, e con qualsiasi governo. Per noi, una raccomandazione obbligatoria, più ancora che scontata: la Ue ha come obiettivo medio nel debito pubblico il 60% del Pil, e l’Italia viaggia verso il 132%. Un rapporto più che doppio rispetto agli obiettivi di medio termine. Bruxelles si aspetta da Roma le solite riforme strutturali, parola con due possibili risvolti: interventi coordinati per migliorare la produttività del lavoro, leggi per aprire alla concorrenza il mercato dei servizi, finanziamenti coordinati alla ricerca e alla sviluppo e così via; oppure, a seconda di chi stia ad ascoltare, ancora e sempre tasse per coprire il deficit.
con questa, inconciliabile con la prima:
2. La spinta per ridurre la pressione fiscale, arrivata al 55%
Questo, davvero, è qualcosa che la Commissione europea va raccomandando all’Italia ormai da anni, e con governi di ogni tinta: dovete alleviare la pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, ridar fiato agli imprenditori e ai lavoratori, all’intera economia. Con il tempo, è diventata quasi un’intimazione, e poi un’implorazione. Ma sembra che, a Roma, il sistema di ricezione non funzioni bene. Perché tutte le analisi e ricerche fatte negli ultimi anni dalla Commissione europea, da Eurostat, da qualunque istituzione Ue, dicono sempre lo stesso: la pressione fiscale in Italia cresce. Secondo gli ultimi dati, la pressione fiscale ha raggiunto quota 48,2 per cento.
Può essere banale rilevare che nel titolo la pressione fiscale che grava sugli italiani è al 55% mentre nel pezzetto è indicata al 48,2: probabilmente il dato medio è quello più basso, mentre il 55% è riferito alla aliquota top, quella detta marginale, che qualcuno nel Governo vorrebbe ancora aumentare.
Ma 48 per cento vuole dire metà: metà di quello che un italiano guadagna, se lo denuncia al fisco, sparisce nel pozzo senza fondo della finanza pubblica, da cui escono tante cose buone ma anche tanti sprechi, tante cose importanti e utili, ma anche tante mazzette.
Non è la prima volta che dall’esterno, dagli apparati europei ci prescrivono cure. Nell’estate del 2011 scrisse la Bce, la banca centrale Europea. Anche allora i punti della prescrizione erano 6. Fu una lettera a quattro mani, quelle di Jean-Claude Trichet, presidente uscente e Mario Draghi, subentrante: era una lista dettagliata di richieste, che il Governo Berlusconi prima ma soprattutto quello di Mario Monti dopo, hanno eluso alla grande.
A onor del vero, il risanamento della finanza pubblica italiana fu avviato sotto la guida di Giulio Tremonti. La data di inizio è stata fissata in un documento della Commissione Europea al maggio 2010:
Secondo un documento riservato della primavera 2012, diffuso dal Financial Times, dal titolo “La situazione di Bilancio in Italia” e compilato dalla Commissione Europea, Roma da maggio 2010 ha varato misure ”davvero notevoli” per consolidare il bilancio, pari a più di 100 miliardi di euro ed equivalente al 7% del Pil.
Mario Monti si prese molti meriti ma fece le cose con gli scarponi e precipitò la crisi.
Qualcuno, cioè Renato Brunetta, disse poi che la lettera era stata scritta a Roma e girata alla Bce perché a sua volta la rigirasse a Berlusconi. Probabilmente era un tentativo di Berlusconi per convincere l’allora potentissimo Umberto Bossi che lo teneva in scacco e non ne voleva sapere di riforme che penalizzassero gli strati più deboli del Nord Italia.
La lista di Trichet-Draghi comprendeva questi 6 punti:
1. libertà di licenziamento;
2. servizi pubblici privatizzati;
3. riforma delle pensioni;
4. pareggio di bilancio;
5. blocco del turnover nella pubblica amministrazione e se non basta taglio degli stipendi pubblici;
6. taglio delle province.
Tutti sono in grado di giudicare cosa abbia fatto il Governo che ci doveva salvare e raddrizzare anche le gambe, come ai cani. La cosa più paradossale che invece di privatizzare i servizi pubblici hanno passato la Snam dall’Eni alla Cassa Depositi e Prestiti, perseguendo chissà quale oscuro disegno.
I nuovi 6 punti, di cui abbiamo messo in evidenza le contraddizioni insite nel numero 1 e nel numero 5, sono:
1. CONSOLIDAMENTO CONTI PUBBLICI. L’obiettivo di lungo termine resta 60% del Pil (siamo invece al 132%).
2. PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. Rendere molto più efficiente la macchina della pubblica amministrazione per alleggerire il sistema produttivo di una zavorra che troppo spesso ne condiziona l’attività e lo sviluppo.
3- BANCHE. Va reso più efficace e produttivo.
4. LAVORO. Serve una maggiore flessibilità, che è il contrario di quello che ha combinato Elsa Fornero che ha invece reso tutto più rigido e riducendo e possibilità di nuova occupazione. Più contratti decentrati per la competitività.
5. FISCO. Va ridotta la pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, spostandola su proprietà e consumi (leggi Imu e Iva).
6. CONCORRENZA. Maggiore apertura alla concorrenza del mercato dei servizi, dalle Tlc all’energia, inclusa la mitica liberalizzazione nelle professioni, che ogni volta che quelli ne parlano, diventano sempre più chiuse e corporative.