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Egitto, scontri tra islamisti ed esercito: decine di morti al Cairo

di Maria Elena Perrero |24 Settembre 2013 14:25

(Foto Lapresse)

IL CAIRO – Ancora scontri e morti in Egitto. Nella notte tra venerdì 26 e sabato 37 luglio sostenitori del deposto presidente Mohamed Morsi e l’esercito si sono fronteggiate nelle strade del Cairo.

La guerra è per strada, è nelle dichiarazioni dei fronti contrapposti e anche nei numeri delle vittime: 66 secondo il ministero della Sanità, oltre 120 secondo la Fratellanza, che ha accusato forze dell’ordine e cecchini di aver volutamente sparato sui manifestanti per uccidere. Accusa respinta dal ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim e dal procuratore generale, che a loro volta hanno addossato ai pro Morsi la responsabilità di aver sparato per primi sulla polizia.

Nonostante l’ultimatum dei militari scadesse sabato, il ministro ha riferito che la data di uno sgombero della grande piazza davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya non è stata decisa e che la speranza è che i militanti islamici l’abbandonino di loro volontà per evitare altri spargimenti di sangue. Speranza pressochè vana, visto che gli esponenti dei Fratelli musulmani hanno ribadito che rimarranno lì dove sono.

Gli scontri sono cominciati in nottata e il bilancio ha continuato ad aggravarsi per tutta la giornata. Il portavoce della Fratellanza, Ahmed Aref, in una conferenza stampa a Rabaa el Adaweya, dove nella morgue man mano venivano allineati per terra i corpi avvolti in teli bianchi, ha detto che finora i morti sono 66, e 61 sono le persone clinicamente morte, mentre i feriti, tutti per arma da fuoco, sono 4500.

“E’ un massacro frutto del mandato dato ad el Sissi per la lotta contro il terrorismo”, ha detto Aref, riferendosi alle mega manifestazioni che ieri hanno risposto all’appello del capo dei militari e ministro della Difesa a dare il sostegno popolare all’azione dell’esercito contro violenze e terrorismo.

“Resteremo qui fino alla fine” e quanto avvenuto nella notte “supera anche i crimini commessi da Mubarak”, ha detto Mohamed el Khatib dalla piazza islamica, dove in serata si sono nuovamente raccolte migliaia di persone.

Nella sua conferenza stampa, il ministro ha assicurato che un’eventuale operazione di sgombero della piazza sarà fatta in un quadro di legalità e che verrà decisa dopo avere conosciuto la valutazione della procura.

L’esito delle prime indagini condotte si è fatto attendere e il procuratore generale ha attribuito ai sostenitori di Morsi l’intera responsabilità delle violenze e dell’uso di armi da fuoco. Rivolte, ha detto, contro le forze dell’ordine che tentavano di impedire ai manifestanti di bloccare un dei principali ponti della città, quello del 6 ottobre.

Versioni nettamente contrapposte che non lasciano nessuno spazio alla mediazione e al compromesso, come ha invece nuovamente invocato il vicepresidente e a lungo leader dell’opposizione Mohamed el Baradei, condannando “l’uso eccessivo della forza” assieme a Ue e Usa. E assieme al gran imam della moschea di Al-Azhar, Ahmed al-Tayeb.

Segnali importanti da parte di due personalità che hanno sostenuto il colpo di mano dell’esercito contro Morsi. Nella drammaticità della giornata solo qualche notizia è filtrata sulla sorte di Morsi, dal 3 luglio tenuto in una località segreta dai militari. Il ministro dell’Interno ha fatto capire che con molta probabilità verrà trasferito alla prigione di Tora, dove ad attenderlo potrebbe trovare il rais che lui stesso spodestò un anno fa, Hosni Mubarak.

Morsi, ha detto una ong egiziana, gode di buona salute. Probabilmente non sa quanto sta succedendo sulla ‘sua’ piazza. E quanto ancora può succedere nella notte. Ma oltre i confini egiziani è tutta la regione a ribollire.

La Tunisia, dove continuano le proteste, è ancora sotto shock per l’assassinio nei giorni scorsi dell‘oppositore Mohamed Brahmi per mano dei salafiti, con migliaia di persone che oggi hanno affollato in un clima di altissima tensione i funerali del nuovo “martire” della democrazia tunisina.

Mentre la Libia ha chiuso le frontiere con l’Egitto, ufficialmente per impedire di lasciare il Paese ai responsabili dell’uccisione, venerdì 26 luglio, dell’avvocato e militante politico ostile ai Fratelli Musulmani, Abdessalem al-Mesmari, a Bengasi, dove oggi più di mille detenuti sono riusciti a fuggire da un carcere.

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