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Debito pubblico: in barca con l’elefante

di Alberto Francavilla |18 Marzo 2011 19:55

ROMA – Se 232 miliardi (di euro) vi sembran pochi… A tanto ammonta la crescita del debito pubblico italiano da quando Silvio Berlusconi è risalito al potere (maggio 2008). Eppure, pur con tutte le sacrosante critiche che gli si possono muovere, non si può dire che il Berlusconi quarto abbia operato all’insegna della finanza allegra. Le dimissioni e le minacce di gettare la spugna giunte nei giorni scorsi ne sono un’ulteriore controprova: se n’è andato il presidente del Consiglio superiore per i beni culturali, Andrea Carandini, dopo i ripetuti tagli subiti dal ministero del dimissionario Sandro Bondi; minaccia di andarsene Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega per la Famiglia, sostenendo che il suo budget è stato ridotto del 90 per cento. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, viene apostrofato “Signor No” da molti suoi colleghi di partito che fanno sempre più fatica a sopportare i suoi rifiuti di allargare i cordoni della borsa. I risultati non solo gli danno ragione ma dimostrano che la forbice di Tremonti più che essere una terapia d’urto di lacrime e sangue è stata una cura omeopatica di fronte alla gravità dello squilibrio dei conti pubblici.

Si dirà: è tutta colpa di un triennio di crisi. Ma è vero solo in parte: le entrate fiscali non sono poi andate così male come ci si poteva attendere con questi chiari di luna: nel 2010 sono leggermente aumentare (più 0,3 per cento, escludendo l’effetto delle una tantum; per l’Irpef addirittura un più 4,4). Si poteva fare meglio se non fosse stata abolita l’Ici sulla prima casa, unica imposta “federalista” esistente e patrimoniale ordinaria, certo più accettabile di quelle straordinarie di cui si è straparlato di recente, ancorché viziata da una base imponibile solo immobiliare e dalle iniquità insite in un catasto con valori aleatori, lontani tra loro per beni simili e con scarse o nulle relazioni con quelli di mercato.

Che fare di fronte a questa inarrestabile deriva del debito pubblico, ormai al 120 per cento del Pil? La strada del continuo innalzamento del debito appare sempre più impraticabile, non è più nella disponibilità del governo di Roma che negli ultimi due-tre anni aveva potuto permetterrsi di riportare il debito al livello del 1995, dopo che Prodi lo aveva ricondotto con la Finanziaria 2007 al 104 per cento circa. L’Unione europea si appresta a dettar legge: due “paletti” sono ormai fissati, anche se nei prossimi giorni la trattativa potrebbe approdare ad alcune deroghe.

Il primo vincolo riguarda il percorso di rientro per i paesi il cui rapporto debito/Pil supera il 60 per cento: la parte eccedente, nel nostro caso all’incirca un altro 60 per cento, dovrà essere ridotta ogni anno di un ventesimo, vale a dire del cinque per cento. Quanto più aumenterà il Pil, tanto meno sarà pesante la decurtazione, ma le più ottimistiche fra le previsioni che si possono fare oggi indicano per i prossimi anni tassi di incremento del Pil compresi tra l’uno e il due per cento, certo inadeguati a farci tirare sospiri di sollievo. Non a caso lo stesso Berlusconi ha promesso nei giorni scorsi una “frustata” all’economia, fatta di liberalizzazioni e spesa mirata al rilancio, capace di “portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni”. Promesse da marinaio, con tutto il rispetto per gli uomini di mare, visti i precedenti e le casse statali vuote.

Il secondo “paletto” europeo riguarda invece la riduzione del rapporto fra deficit e Pil, il cosiddetto obiettivo a medio termine (Mto) concordato con la commisione di Bruxelles: la decurtazione dovrebbe essere dello 0,5 per cento all’anno. La Banca d’Italia ha quantificato lo sforzo di contenimento della spesa che i due vincoli Ue comporterebbero. Nel caso di un aumento del Pil pari all’un per cento annuo dal 2012, i tagli di spesa veri dovrebbero ammontare a 22 miliardi di euro tra 2010 e 2016. Tagli “veri”, non trucchetti contabili o sovrastime delle entrate, come è avvenuto anche di recente, e che a loro volta potrebbero però comportare un’ulteriore riduzione nella variazione del Pil.

Se questo percorso non fosse rispettato l’Ue farebbe entrare in campo la riduzione del deficit, il cosiddetto Mto, eventualmente anche elevando la percentuale dello 0,5 stabilita per ora. In ogni caso si prospettano lacrime e sangue, anche perché per gli inadempienti sono previste sanzioni durissime (tra uno e due miliardi di euro all’anno). Il governo esorcizza questo scenario fosco, oltre che prospettando livelli di crescita altamente improbabili, spiegando che i vincoli Ue sono ancora “trattabili”. Su che base? Tremonti e il suo fido Vittorio Grilli hanno proposto in sede Ue che, nel valutare la situazione di ciascun paese ed eventuali sanzioni, non si tenga conto esclusivamente del rapporto di debito e deficit con il Pil, ma anche di altri parametri: il livello dell’indebitamento privato (ed è noto che i cittadini del Belpaese hanno pochi debiti rispetto a quasi tutti gli altri partner europei); gli equilibri di medio-lungo periodo del sistema previdenziale (e anche in questo caso le riforme varate in Italia offrono buone garanzie); l’esistenza o meno di “bolle” immobiliari; l’esposizione delle banche di ciascun paese nei confronti dei prodotti derivati e dei titoli degli Stati a rischio default. Il ministro dell’Economia ha ottenuto a Bruxelles che questi criteri siano tenuti in considerazione. Ma in quale misura? Questo è tutto da vedersi. Né può rassicurare il fatto che l’Ue preveda una fase transitoria, fino al 2015, durante la quale non verranno comminate penalizzazioni ai reprobi: fin da subito i mercati monitoreranno chi è sulla buona strada e chi non lo è e ci penseranno loro ad applicare sanzioni, e per giunta salate.

L’epoca della finanza creativa tremontiana volge dunque al termine, complici non da ultimi i tassi d’interesse in rialzo. A questo punto si aprono due vie per la politica economica: quella di un drastico contenimento delle spese e, per quanto possibile, di stimoli alla ripresa, e quella di un’imposta patrimoniale straordinaria da finalizzare a una sensibile decurtazione del debito pubblico (e quindi degli interesi passivi, creando nuovi spazi per la spesa volta allo sviluppo). Vie entrambe impervie. Il dilemma è stato brillantemente raffigurato da un economista della Sapienza, Ruggero Paladini, secondo cui “avere un debito pubblico al 120 per cento del Pil è come andare in barca con un elefante… Cosa conviene? Rimanere in barca con l’elefante per venti anni o buttarlo a mare subito, insieme a una considerevole fetta della ricchezza immobiliare e finanziaria delle famiglie italiane (cioè varare una pesante patrimoniale, ndr.)?”. In cifre, la via “gradualistica” della riduzione delle spese comporta che per venti anni si ottenga un avanzo primario (cioè al netto degli interessi sul debito che sono pari a circa 80 miliardi annui) del 4,8 per cento (stima dello stesso Paladini). Tenuto conto che buona parte della spesa pubblica è costituita da stipendi, pensioni e altre uscite difficilmente comprimibili, l’obiettivo fa tremare le vene ai polsi. Ma anche una patrimoniale straordinaria, come quelle proposte nei mesi scorsi da Giuliano Amato o da Pellegrino Capaldo, ha delle controindicazioni rilevantissime. Solo per citarne un paio: pesanti effetti negativi sulla domanda e sul tasso di sviluppo; forti sperequazioni fra i patrimoni facilmente individuabili e quelli maggiormente occultabili o esterovestibili.

Non ci resta che piangere o, meglio, dotarci di tutta la fantasia sforbiciatoria possibile. Ridurre i costi della politica (che è comunque un esempio ineludibile), abolire le province, dimezzare i comuni, ridurre i privilegi delle regioni a statuto speciale, tassare maggiormente le rendite finanziarie, trasferire imposte dalle persone alle cose (non è una fiscalità regressiva ma piuttosto un mezzo per colpire in quanche modo i redditi che sfuggono al fisco e i cui titolari hanno consumi assai superiori di quelli deducibili dai redditi dichiarati), disboscare la giungla delle elusioni, manette vere agli evasori, nessun condono: sono solo alcuni esempi delle riforme di cui il paese ha veramente bisogno.

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