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La tragedia greca

di admin |20 Maggio 2011 12:45

foto Ap - Lapresse

A circa un anno di distanza dal “pacchetto” di 110 miliardi di euro stanziato da Ue e Fmi per salvare la Grecia dal default, ci risiamo daccapo. Il paese mediterraneo ha fallito l’obiettivo di risanamento dei conti fissato per l’anno scorso mentre appare evidente già da oggi che anche quello per il 2011 resterà in buona parte nel libro dei sogni. La scommessa che il Tesoro di Atene potesse tornare a finanziarsi sui mercati senza pagare tassi iperbolici è persa. Per sopravvivere s’impone quantomeno una nuova ciambella di salvataggio europea di una cinquantina di miliardi. Ma se sulle modalità degli aiuti nel 2010 c’erano resistenze e incertezze, l’odierno secondo atto della tragedia greca si sta svolgendo nella babele più totale. Grande è la confusione sotto il cielo.

Da un lato vi sono alcuni paesi dell’eurogruppo, tra cui la “pesante” Germania, che vedrebbero di buon occhio una “ristrutturazione” del debito greco (oggi circa 350 miliardi di euro) che potrebbe in prima battuta assumere la forma “soft” di un “riscadenzamento” (o “reprofiling”). In sostanza verrebbero allungate le scadenze dei titoli pubblici lasciando inalterato il loro valore nominale (nel gergo della finanza, non vi sarebbe “haircut”). Meno chiara è la dimensione dell’allungamento e anche cosa dovrebbe succedere ai tassi di interesse pagati su quei titoli: c’è chi non li vorrebbe toccare e chi invece propende per un taglio d’autorità. In ogni caso, dietro l’aspetto soft della terapia si tratta di fatto di un default appena mascherato: la Grecia non onorerebbe appieno il suo debito e ne farebbero le spese i detentori, tra cui altri Stati, i fondi europei di salvataggio, molte banche (in primis quelle greche, francesi e tedesche) e investitori privati. Addebitare almeno in parte il costo della crisi agli investitori, che si sono assunti l’“azzardo morale” di acquistare titoli assai poco sicuri perché ingordamente attratti dagli alti interessi: questo è un chiodo fisso di paesi come la Germania, l’Austria o l’Olanda. Possiamo dargli torto? Ci sono altre strade?

I massimi esponenti della Banca centrale europea, tra cui l’italiano Lorenzo Bini Smaghi, sono decisamente contrari alla ristrutturazione del debito, sia essa soft o hard: in ogni caso si tratta di una dichiarazione di fallimento (o quantomeno di “concordato preventivo”) di un paese dell’eurozona. E potrebbe risultare contagiosa. La speculazione diverrebbe più agguerrita, spostandosi dalla Grecia ad altri paesi “deboli”, e in fondo al tunnel, secondo i più pessimisti, si potrebbe incontrare addirittura la fine dell’euro. Poco male, sostiene qualcuno molto sprovveduto. In quest’ultimo scenario catastrofico ma non del tutto irrealistico, è stato stimato che ciascun paese dell’eurogruppo potrebbe subire, nel solo primo anno, riduzioni del Pil fra il 5 e il 10 per cento (più alte per i più deboli, tra cui l’Italia, e accoppiate a un aumento dei tassi sulle future emissioni di titoli pubblici). Insomma i paesi europei si ritroverebbero tutti ben dentro la recessione che per molti di essi non è ancora del tutto alle spalle.

La Bce, che non può rinnegare il proprio scopo fondante, cioè la difesa dell’euro, non ci sta a nessuna forma di ristrutturazione e punta invece su una nuova tranche di aiuti (40-60 miliardi) che dovrebbe essere sufficiente a coprire le necessità finanziarie di Atene per tutto il 2012 e parte del 2013, evitandole un quasi impossibile ricorso al mercato (senza questi soccorsi, per i prossimi cinque anni la Grecia dovrebbe piazzare 138 miliardi di titoli pubblici su un mercato che ormai è arrivato a chiedere il 24 per cento di interessi per i bond a due anni e più del 15 per quelli decennali). E’ auspicabile che sul futuro pacchetto di aiuti finanziari i paesi dell’eurogruppo non applichino i tassi capestro decisi lo scorso anno: erano più del doppio dei tassi che l’Italia riconosceva sui propri titoli pubblici di analoga scadenza. L’esosità fu allora voluta soprattutto dalla Germania, timorosa che un’apertura di credito troppo “facile” incentivasse il “moral hasard” dei governanti greci, favorisse cioè la continuazione di una politica di spesa facile.

Il paese di Frau Merkel, se anche dovesse abbandonare la strada preferita della “ristrutturazione” del debito, non rinuncerà a richiedere fino all’ultimo che, a fronte di nuovi prestiti, siano poste condizioni di politica economica molto stringenti. La cancelliera ha già dato numerosi segnali in questo senso, dalla richiesta che in Grecia si riducano le ferie a quella di aumentare l’erà pensionabile almeno ai livelli tedeschi (67 anni che sul lungo periodo dovrebbero diventare 69). Si vedrà se i ballon d’essai della Merkel hanno una funzione soprattutto interna, per il suo elettorato che non vuol pagare i conti d’altri (soprattutto di altri che fanno più vacanze e vanno in pensione prima), o se vorrà mantenere i diktat più duri.

In ogni caso, come era stato previsto anche nel precedente intervento di salvataggio, tutti i membri dell’eurogruppo sono d’accordo sul fatto che la Grecia dovrebbe impegnarsi a un piano di risanamento della finanza pubblica “lacrime e sangue”, magari meno duro di quello preteso da Berlino ma più severo di quello, in una certa misura disatteso, concordato l’anno scorso e che già ha provocato scioperi, manifestazioni antigovernative e quant’altro da parte delle categorie che si sono viste decurtare retribuzioni e privilegi. Ribellioni, peraltro, che a oggi sono tutt’altro che concluse.

Il governo di George Papandreou, d’accordo con Ue, Fmi, e Bce, questa volta spera di evitare un riacutizzarsi delle tensioni sociali puntando tutto sulla vendita (o svendita) del patrimonio pubblico. L’obiettivo è raccogliere 50 miliardi di euro – da portare a riduzione del debito – mettendo sul mercato autostrade, la quota statale della più grande società europea di giochi d’azzardo, l’Opap, ferrovie, imprese energetiche pubbliche, l’aeroporto di Atene e molti beni immobili. Non si tratta di una sfida di poco conto. Innanzitutto perché la realizzazione di questi assets dovrebbe avvenire in tempi brevi per consentire un rapido taglio del debito e del suo servizio. In secondo luogo perché in oltre vent’anni la Grecia ha realizzato privatizzazioni per meno di 30 miliardi.

C’è da aggiungere che il programma di risanamento varato lo scorso anno ha certamente contribuito, con le sue decurtazioni ai redditi e quindi ai consumi, a tenere sprofondato il paese ellenico nella recessione e a impedire una riduzione del rapporto deficit/Pil (oggi superiore al 10 per cento) e debito/Pil. Il problema maggiore è che le misure attuate e quelle previste, anche se realizzate in massima parte, al più possono permettere il “galleggiamento” della finanza pubblica greca. Sono in grado cioè solo di momentaneamente le falle di una nave con una zavorra eccessiva, vale a dire un debito pubblico ora attorno al 150 per cento del Pil, che tende a crescere ulteriormente e il cui rifinanziamento è sempre più difficile. A fronte di questa massa debitoria, inoltre, la ricchezza finanziaria delle famiglie greche è assai modesta e la quota di debito pubblico ellenico detenuta da investitori esteri è elevatissima: tutti fattori che accentuano l’instabilità. Anzi, hanno un’importanza per certi versi maggiore del mero rapporto debito/Pil (è stato osservato che se il debito è detenuto prevalentemente da risparmiatori dello stesso paese emittente, come è il caso del Giappone, che ha il record mondiale dell’indebitamento, e anche dell’Italia, è sempre possibile, ad esempio mediante un’imposta patrimoniale, evitare il default).

Sul lungo periodo il debito pubblico ellenico dovrebbe ridursi, secondo le direttive Ue, al 60 per cento del Pil. Facendo alcune ipotesi di crescita del Pil e di riduzione degli interessi sul debito molto ottimistiche (soprattutto considerato che i piani di “risanamento” deprimono l’economia), è stato calcolato che la Grecia, per raggiungere l’obiettivo del 60 per cento, dovrebbe conseguire un avanzo primario (differenza fra entrate e spesa pubblica prima degli interessi) del 6 per cento all’anno per 30 anni! Se qualcuno crede ancora alle favole a lieto fine, ebbene allora può bersi anche questa. Ma basta un pizzico di realismo per comprendere che una simile performance non è alla portata della Grecia e implica un contenimento progressivo e duraturo della spesa pubblica che difficilmente può essere fatto ingoiare ai cittadini di quel paese. E poi, quanto costerebbe in termini di mancato sviluppo una simile politica di restrizioni?

Tutto ciò conferma che la Grecia si trova a fronteggiare una crisi di solvibilità piuttosto che di liquidità. Mentre per quest’ultima un programma di aiuti finanziari da parte dei partner dell’eurozona è una soluzione adeguata, per la prima prima, non essendo ipotizzabile un soccorso prolungato per un tempo illimitato, occorre necessariamente prendere in considerazione una ristrutturazione del debito. Alla fin fine nel braccio di ferro tra alcuni governi, Germania in testa, e Bce saranno quindi i primi ad averla vinta, a meno di miracoli oggi inimmaginabili. Di più, probabilmente un allungamento delle scadenze dei titoli non sarà sufficiente e si dovrà ricorrere anche a una riduzione degli interessi e fors’anche a un “taglio di capelli”. Se la ristrutturazione è l’inevitabile sbocco per il debito greco, c’è da chiedersi che senso abbia prolungare l’agonia con iniezioni finanziarie assai costose e per nulla risolutive che poco servono alla Grecia e all’euro e aiutano solo quegli istituti di credito che hanno distribuito paccate di Cds (credit default swap), circa 77 miliardi a quanto pare, e ora sperano intensamente che il fallimento greco avvenga dopo la scadenza dei suddetti Cds per non essere costretti a pagare queste “assicurazioni sul default”. Per loro, quindi, la parola d’ordine è: “Prendiamo tempo”.

Poche parole merita l’ipotesi estrema, mormorata qua e là ma di cui però pochi si assumono pubblicamente la paternità, cioè quella di un’uscita della Grecia dall’euro per ritornare alla dracma. Trattasi di un’eventualità catastrofica (per i greci ma anche per gli altri membri dell’eurozona): fughe di capitali; una potente svalutazione della valuta greca che colpirebbe i detentori stranieri di debito pubblico ellenico non meno di un taglio netto del valore dei titoli rimanendo all’interno dell’euro; problemi tecnico-logistici per distribuire tempestivamente il nuovo conio; difficoltà per i commerci e gli investimenti; speculazione in cerca di nuove, deboli vittime e quindi rischio che l’uscita della Grecia rappresenti l’inizio della fine dell’euro per tutti. Speriamo che la tattica del rinvio e del tappare i buchi senza affrontare di petto i problemi degli squilibri strutturali dei conti pubblici greci (ma anche portoghesi, irlandesi e magari anche spagnoli) non ci porti, alla lunga, su questa china pericolosissima.

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