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Pensioni: i pilastri che non reggono

di admin |7 Giugno 2011 17:22

Il sistema previdenziale italiano è come un tavolo triangolare a tre zampe. Con una peculiarità: è capace, non chiedetemi in base a quale strana legge fisica, a reggersi bene in piedi anche su due sole di esse. Però ha un grosso problema: oggi come oggi due gambe su tre sono molto corte e non esiste possibilità alcuna che il tavolo raggiunga un soddisfacente equilibrio basandosi solo su quella di lunghezza normale. Fuor di metafora, il sistema pensionistico, così come è stato ricostruito nell’ultimo quindicennio dalle varie riforme succedutesi, doveva basarsi su tre “pilastri” ma solo uno svolge pienamente il suo ruolo. Esaminiamoli partitamente e vediamo le conseguenze negative della situazione accennata.

Primo pilastro. Entro pochissimo tempo si esauriranno le coorti di quanti ancora beneficiano del vecchio sistema di calcolo “retributivo”, nel quale cioè le pensioni sono commisurate alle retribuzioni medie degli ultimi anni di lavoro. Fra breve, poi, cominceranno a ritirarsi, magari sospinti da qualche prepensionamento, quelli che si trovano in una condizione intermedia (contributivo pro rata): il loro assegno previdenziale viene calcolato su base retributiva per una parte della loro carriera lavorativa e per un’altra parte in base ai contributi versati. Infine, fra 15-20 anni cominceranno a entrare nelle file delle pantere grigie in quiescenza coloro che hanno cominciato a lavorare dopo l’introduzione della legge Dini del 1995. E se qualcosa non cambierà saranno guai.

Con il contributivo i lavoratori che non fanno “carriera”, e quindi hanno retribuzioni basse ma molto stabili nel tempo, riceveranno pensioni che bene o male rispecchiano l’encefalogramma piatto delle loro buste paga. Quelli invece che nel corso della loro vita lavorativa conseguiranno sostanziosi aumenti, si ritroveranno con un “tasso di sostituzione” (rapporto tra indennità di quiescenza e ultima retribuzione) molto basso. Sempre la riforma Dini ha introdotto un’altra novità rilevante: si è stabilito che nel calcolo della pensione incida in qualche misura anche l’andamento del Pil negli anni di lavoro, un andamento che nell’ultimo periodo è stato inferiore a quello che veniva ipotizzato negli anni ’90. Di nuovo la crisi, ma ancor più i mutamenti strutturali intervenuti nel mercato del lavoro, con l’esplosione dei contratti a tempo determinato e dei lavori a tempo parziale, hanno comportato un forte incremento della carriere lavorative contrassegnate da bassi salari e soprattutto da mesi o anni di interruzione dei rapporti di lavoro. Col sistema contributivo ciò inciderà pesantemente quando gli attuali giovani precari andranno a farsi fare i conti per la pensione, anche se l’età di uscita dal lavoro verrà fortemente posticipata. Una soluzione, quest’ultima, che nel nuovo regime dovrebbe rappresentare un’opzione del tutto libera (meno contribuisci, meno prendi) mentre invece i più recenti interventi, sia del governo Prodi che del ministro berlusconiano Maurizio Sacconi, hanno messo a punto un meccanismo di variazione automatica dell’età di quiescenza basato sul mutamento delle “speranze di vita”. Negli ultimi decenni la vita media si è molto allungata (e questa, oltre che una buona notizia, è la causa fondamentale della crisi dei sistemi previdenziali). Non è dato sapere se il trend proseguirà nel futuro, anche se molti esperti lo ritengono probabile. Se queste previsioni si realizzeranno, i giovani trentenni d’oggi lasceranno il lavoro (chi l’avrà nel frattempo trovato) intorno ai 70 anni.

Ma l’aspetto senz’altro più preoccupante non riguarda l’età di uscita dal lavoro quanto il già citato “tasso di sostituzione”. Questo è stato fin qui prossimo all’80 per cento: d’ora in poi scenderà fino ad arrivare, secondo le diverse stime, fra il 40 e il 60 per cento. Insomma chi andrà in pensione sull’onda di una retribuzione che nella media della vita attiva si è attestata attorno ai 1.200 euro si ritroverà un assegno mensile fra i 480 e i 720 euro. Se poi avrà avuto periodi di disoccupazione il risultato sarà ancora più modesto. Il “fortunato” che nel corso della sua carriera fosse partito da una retribuzione mensile di 800 euro per arrivare dopo un quarantennio ai 3.000 si potrebbe ritrovare con un assegno di mille euro o poco più, pari al 30-40 per cento del suo ultimo stipendio: inevitabile un rapido e drastico cambio delle abitudini di vita e di consumo.

Messi di fronte a stime di questo genere, in molti di questi tempi sembrano aver riscoperto l’acqua calda, inclusi parecchi di coloro che negli anni scorsi avevano sottoscritto le riforme. Si sono cioè svegliati al mattino con un’illuminazione: le future pensioni spesso saranno del tutto inadeguate a garantire un decente livello di sopravvivenza e comporteranno “costi sociali” insopportabili. In realtà era chiaro fin dall’inizio che la previdenza generale, cioè il succitato primo pilastro, avrebbe portato a risultati del genere.

Gli illuminati sulla via di Damasco ora cominciano a invocare rimedi, spesso peggiori dei mali. In sostanza si propone di tornare indietro, di mettere la sordina al calcolo contributivo, ad esempio fissando dei minimi pensionistici abbastanza alti. E’ di fatto quanto sostiene, ad esempio, la leader della Cgil Susanna Camusso quando dice che si dovrebbe tornare a “garantire ai futuri pensionati almeno il 60 per cento dell’ultima retribuzione”.

Secondo pilastro. L’obiettivo di un tasso di sostituzione del 60, ma anche del 70 o dell’80 per cento, non è affatto peregrino. Solo che non può essere perseguito imponendolo attraverso un minimo di legge, col rischio di far saltare un equilibrio del sistema previdenziale che è stato piuttosto arduo raggiungere e che oggi costituisce uno dei pochissimi punti di forza di un Paese con un debito che supera di un bel po’ il Pil.

I più avveduti tra i legislatori, gli economisti e i sindacalisti che hanno lavorato alla costruzione del nuovo sistema erano ben consci che avrebbe distribuito pensioni modeste anche se forse avevano sottovalutato l’impatto negativo della crisi e della variabile demografica. Proprio per questo avevano insistito sulla necessità che l’implementazione del nuovo meccanismo generale e pubblico di previdenza si accompagnasse allo sviluppo del secondo pilastro previdenziale, quello cioè costituito dai fondi pensione (che possono essere “chiusi”, cioè di categoria, oppure “aperti”, cioè gestiti da banche o assicurazioni).

Versando una percentuale della retribuzione lorda a questi fondi, i lavoratori al momento di lasciare la vita attiva si ritrovano una rendita vitalizia, in pratica una seconda tranche di pensione accanto a quella della previdenza generale, tale da innalzare il “tasso di sostituzione” di una percentuale compresa fra il 10 e il 30 per cento, portandolo quindi ai livelli del vecchio sistema retributivo o persino migliori. Il pilastro viene inoltre “irrobustito” grazie ad agevolazioni fiscali, a contribuzioni su base contrattuale da parte dei datori di lavoro e alla destinazione ai fondi previdenziali integrativi dell’ex trattamento di fine rapporto (obbligatoria solo per i nuovi assunti).

Forse perché i benefici fiscali sulle somme destinate ai fondi e sulle future rendite non sono adeguati, o perché l’andamento dei mercati finanziari ha consigliato molti lavoratori a tenersi alla larga da strumenti che in quei mercati necessariamente operano, o ancora forse perché fra i precari, nelle aziende più piccole o nelle categorie meno numerose lo strumento non ha avuto successo, oppure anche perché non è stata data sufficiente divulgazione circa la sua utilità o i costi dei fondi sono risultati troppo elevati, fatto sta che a oggi, dopo una dozzina d’anni, solo il 22-25 per cento (a seconda delle fonti) dei lavoratori aderisce a un fondo integrativo e in molti casi lo fa con somme inadeguate a garantire una rendita significativa.

E’ da questa mancata partecipazione ai fondi che per molti futuri pensionati si delinea all’orizzonte una situazione di disagio o di vera e propria povertà. E’ da qui, dal rilancio dello strumento del fondo, che occorre ripartire. Si tratta di renderlo più appetibile, migliorando il trattamento fiscale, e anche più alla portata del lavoro diffuso e/o precario. In quest’ultima direzione appare molto sensata la proposta (vedi ad esempio il “Corriere della sera” del 7/6/2011) di creare un fondo integrativo pubblico gestito dallo stesso Inps, ben separato dal calderone della previdenza generale, con i criteri propri di un fondo e, possibilmente, con i costi competitivi che sarebbe possibile ottenere tramite la struttura di raccolta e di gestione di un colosso quale l’Istituto di via Ciro il Grande all’Eur. Fermo restando che questo fondo dovrebbe aggiungersi a quelli di categoria (sono decine) o aperti (sono centinaia) già esistenti e confrontarsi con loro sulla base dei rendimenti che ciascuno di essi riesce a ottenere.

Terzo pilastro. E quello dei cosiddetti Fip o Pip, piani previdenziali privati offerti dalle compagnie assicurative per integrare il rendimento dei primi due pilastri. Queste forme previdenziali non hanno avuto il boom che qualcuno si attendeva (le adesioni riguardano tra l’uno e il due per cento dei potenziali “clienti”), anche a causa di costi decisamente superiori a quelli dei fondi di categoria (già costosi) e quindi di rendimenti per nulla competitivi. Meglio concentrarsi sul secondo pilastro e lasciare le assicurazioni previdenziali ai soli percettori dei redditi più elevati

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