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Amarcord della Prima Repubblica (ed oltre)

di admin |9 Giugno 2014 20:15

Parassitismo e libero mercato, di Giorgio Oldoini (Marsilio 1996)

Nascita di una democrazia.
Con il referendum istituzionale del giugno 1946, al modello autoritario subentrò la repubblica democratica. Il più grande problema era di formare la nuova classe dirigente. Per la verità, il passato non aveva lasciato solo ceneri. Gli uffici parlamentari sapevano scrivere le leggi in modo chiaro, lasciando pochi spazi all’interprete. I giuristi facevano scuola e i loro lavori erano tradotti in inglese, francese e tedesco. Vecchi statisti di tradizione liberale, stavano scrivendo i trattati fondativi della nuova Europa. I magistrati indossavano la toga con dignità e la loro giurisprudenza garantiva la certezza del diritto. La classe forense annoverava grandi prìncipi e migliaia di studi legali che tenevano alti gli standard della professione. Nel complesso, si poteva ancora parlare di maestà della legge senza sorridere. Le forze armate, dell’ordine e i servizi segreti, avevano perduto autonomia, perché il paese viveva una situazione di sovranità limitata. Ufficiali e funzionari italiani seguivano corsi di formazione presso centri militari di paesi a tradizione democratica. Il corpo docente riusciva a educare le nuove generazioni con impegno e credibilità. C’erano ancora mitici capi azienda capaci di creare ricchezza durevole e ricercatori che il mondo ci invidiava. Migliaia di tecnici o di semplici artigiani facevano la coda all’ufficio brevetti, per trasformare le loro invenzioni in ricavi d’impresa. La classe dirigente sopravvissuta alla tragedia della guerra e alle epurazioni, non era poi così male.
Il costo della politica
I costituenti del 1946, pensavano che la forza del sistema parlamentare risiedesse nell’organizzazione stabile dei partiti: la politica doveva essere alla portata di tutti i cittadini. Lo Stato degli uomini liberi, avrebbe dovuto basarsi su un’etica lontana dagli interessi mercantili. Vent’anni dopo, i partiti adottarono un modello di suddivisione del potere (il manuale Cencelli) che ricopiava i criteri di governo delle imprese. Per mantenere le imponenti strutture dei partiti non furono più sufficienti i contributi volontari degli iscritti. L’uso contra legem della cassa integrazione, le somme una tantum riconosciute ai giovani siderurgici e portuali, erano diventate l’aspirazione suprema del lavoratore medio italiano e sicuro veicolo del consenso elettorale. Il diritto a partecipare alla vita politica, diventava un business per sterminate platee di fruitori delle politiche pubbliche. La questione morale riguardava i furti individuali e trascurava gli enormi sperperi di ricchezza a favore di categorie privilegiate e assistite. Il costo della democrazia avrebbe raggiunto cifre insostenibili.

Il conflitto di classe nel Paese e nelle scuole.
La contrapposizione ideologica tra blocchi mondiali si era riproposta nel nostro Paese con particolare virulenza. Le parti sociali si affrontavano nella logica capitale contro lavoro e mostravano i denti all’avversario, attraverso gli scioperi o la minaccia di licenziamenti. I più modesti sindacati di base, che operavano nei servizi pubblici, erano in grado di tenere in scacco l’intera nazione. Le pubblicazioni sindacali e i discorsi dei segretari, lasciavano credere che il padrone fosse il peggior nemico del lavoratore e che si doveva mettere in ginocchio il capitale. Gli insegnanti che si erano impossessati della scuola secondaria, dividevano invece di unire, diffondevano il dissenso invece della tolleranza e del mutuo rispetto. Intere generazioni di studenti credevano che i problemi economici del paese derivassero dal conflitto di classe. Peraltro, il compromesso storico che non raggiungeva ancora le stanze del governo centrale, era già radicato nelle amministrazioni periferiche e il costruttore più conservatore finanziava le campagne elettorali dell’assessore di sinistra, che gli rilasciava velocemente le licenze edilizie.

Concertazione all’italiana.
La situazione di conflitto aveva come conseguenza un sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione. Quando l’azienda avviava una trattativa con i sindacati, era sufficiente spostare il confronto sul tavolo del ministro. Dopo il rito obbligato della notte di veglia, arrivava la proposta: non licenziate e in cambio il governo garantisce commesse, fondi per la ricerca, sgravi contributivi o fiscali. In questo modo, era l’Erario a risolvere il problema occupazionale. La concertazione richiedeva che le due parti avessero pari potenza economica. Il che giustificava le costose strutture guidate da dirigenti di carriera. Nella pubblica amministrazione erano definiti i contratti su basi economiche contenute, in cambio di maggior tempo libero. Ciascun impiegato pensava di essersi sacrificato alle esigenze di un meccanismo che gli era stato imposto. Ne derivarono l’inefficienza diffusa, il doppio lavoro, l’arrotondamento illegale delle retribuzioni. Le imprese puntavano a raggiungere grandi dimensioni, in modo da diventare un problema sociale: imprenditori e sindacati erano uniti in quest’obiettivo e cercavano in ogni modo di uscire dall’area della concorrenza.

Le partecipazioni statali.
L’intervento dello Stato in economia, rappresentava una scelta obbligata perché la finanza italiana non era in grado di sostenere gli investimenti per lo sviluppo. Si deve ai potenti boiardi la ricostruzione industriale del Paese. All’interno di quel sistema venivano emergendo banchieri che affidavano senza rischio e imprenditori assistiti che non conoscevano le leggi dell’efficienza e del mercato. All’ultimo girone si collocavano le imprese sacrificate che dovevano accontentarsi di modesti profitti per mantenere il circuito parassitario a monte. Fino agli anni Settanta, i cacciatori di teste cercavano i migliori talenti nelle imprese pubbliche. Le esigenze di cassa dei partiti, avrebbero inquinato la cultura manageriale indipendente che aveva concepito e realizzato le grandi infrastrutture. Nell’ambito delle società a partecipazione statale, era mortificante per il capo azienda non poter dare ordini al responsabile dell’ufficio acquisti che rispondeva direttamente al segretario di partito. Le privatizzazioni degli anni Novanta avrebbero finito per distruggere del tutto quel patrimonio, consegnandolo nelle mani dei soliti noti.

Le grandi frodi finanziarie. La fuga dei cervelli. Le cattedrali nel deserto.
La continua scoperta di prodotti finanziari rispondeva all’esigenza di far dimenticare le truffe perpetrate con quelli venduti qualche anno prima, com’era avvenuto per i fondi di investimento o per i titoli atipici. I continui interventi della Consob, le ispezioni, la radiazione degli intermediari finanziari e le denunce alla magistratura, davano conto dei ricorrenti tentativi, giunti a segno, di derubare i risparmiatori. Tra i tanti casi di abuso della credulità popolare in campo finanziario, si ricorda quello di Sgarlata & C., un’avventura iniziata nel 1980 e terminata nel 1984, che fu possibile anche grazie alla complicità e al silenzio degli organismi di controllo. La fuga dei cervelli era diventata inarrestabile: scienziati come Toscanini, Fermi, Dulbecco, Zorat, De Mori, Modigliani, andavano alla ricerca di Paesi che riconoscevano le capacità professionali, senza alcun obbligo di appartenenza ad un partito. La dispersione delle risorse pubbliche, di cui le cattedrali nel deserto erano diventate un simbolo, impediva gli impieghi socialmente utili e il giovane che doveva scegliere tra mestieri mediocri e quello senza futuro del ricercatore universitario, non aveva pratiche alternative. Per motivi analoghi non si corrispondevano contributi agli alluvionati e non si eseguivano le opere di contenimento delle acque dei fiumi.

Proprietà e possesso.
Al capitale ereditato, subentrava il capitale gestito da chi non era proprietario. Le televisioni si potevano occupare a spese della collettività, come le tre reti Rai, o si potevano acquistare come le reti Fininvest, con risultati pratici assolutamente identici. Erano ormai poche le iniziative economiche nelle quali il capitale di rischio fosse almeno pari a quello di prestito. Questa situazione aveva fatto emergere un nuovo sistema fondato sul possesso, di cui avrebbero approfittato proprio gli imprenditori. Il capitalismo familiare, si basava sul conflitto d’interesse, che consentiva di depredare i piccoli azionisti delle pubblic-co. La trasformazione della proprietà in possesso determinava l’effetto folla, in forza del quale nessuno si sentiva responsabile della sorte dei fondi amministrati. La mancanza di una sana cultura del possesso, permetteva agli amministratori d’imprese e degli enti di nessuno di deliberare spese inutili, di assumere in modo indiscriminato, di attribuire compensi da capogiro, ponendo i relativi costi a carico della collettività. Permetteva di trasformare le perdite di tutti in un utile per qualcuno.

Le corvée a carico dei cittadini
Le amministrazioni pubbliche fissavano una serie ininterrotta di obblighi a carico del cittadino: la produzione cartacea imposta dagli enti d’indirizzo o controllo raggiungeva livelli intollerabili. L’errore materiale nell’indicazione del codice fiscale o della partita Iva, nel calcolo della ritenuta d’acconto sulle retribuzioni o nella compilazione della dichiarazione dei redditi più complessa al mondo, veniva punito con sanzioni automatiche, il cui gettito superava quello degli stessi tributi. Le grandi imprese allungavano i tempi di decisione e rallentavano l’attività produttiva perché erano costrette a moltiplicare le funzioni amministrative. Strutture sorte con fini limitati, diventavano ben presto giganti costosi che la collettività non riusciva a mantenere. Eppure, tutti questi uffici giustificavano sul piano etico la loro funzione, quella di educare il cittadino al rispetto delle regole, e si ergevano a difesa di valori come l’equità e la giustizia. La maggioranza degli italiani che voleva rispettare le leggi, stava scoprendo che sarebbe stato meglio un sistema meno giusto ma più efficiente.

La falsa produttività delle burocrazie.
Gli uffici che non erano in grado di raggiungere seriamente il fine istituzionale, cercavano di dimostrare efficienza attraverso attività di tipo fittizio, la cosiddetta falsa produttività. Nel settore dell’amministrazione finanziaria, si verificava il fenomeno degli accertamenti fiscali per fare statistica che non avrebbero mai portato alcun beneficio all’erario. Gli uffici tributari iniziarono a inviare avvisi di accertamento in rettifica delle dichiarazioni dei redditi sulla base di presunzioni e senza alcun riscontro documentale. Le commissioni di merito, invece di bloccare sul nascere quella prassi, finirono per legittimarla decidendo secondo il buon senso e sotto la spinta di dover colpire il fenomeno dell’evasione. Ne derivò la fine del sistema di diritto in campo tributario e un contenzioso del quale il Paese non si sarebbe mai più liberato, nonostante i ripetuti condoni. Particolarmente corposo era il falso gettito rappresentato dai crediti degli enti previdenziali verso le imprese marginali che non erano in grado di pagare né i contributi richiesti né le sanzioni loro comminate.

La demagogia fiscale
Le aliquote che gravavano sugli immobili erano aumentate dai governi di ogni colore politico, per la facilità del prelievo, finendo per gravare in prevalenza sui piccoli proprietari. La tassazione della rendita finanziaria era giustificata con il principio di doversi colpire il ricco speculatore. Poiché nessun governo voleva diventare impopolare, ci si affrettava a precisare che i piccoli risparmiatori non sarebbero stati presi in considerazione dalle nuove leggi. Il fatto è che il capitale non era più classista: l’azionariato diffuso aveva unito il destino della casalinga a quello della società quotata. A ogni aumento della tassazione sulle rendite finanziarie corrispondeva una diminuzione del gettito fiscale, a vantaggio dei paesi più ricchi e sicuri: era il differenziale di fiducia a funzionare da differenziale di interesse. Le leggi tributarie si basavano sulla divisione ideologica dei contribuenti: i buoni che pagano le tasse da una parte e gli evasori dall’altra. La strategia di prendere ai ricchi per dare ai poveri, entrava in crisi a mano a mano che i capitali fuggivano dal territorio. La politica fiscale, che negli altri Paesi rappresentava un’arma per favorire il sistema produttivo, era gestita al solo fine di coprire le voragini del bilancio pubblico. Le imprese avrebbero risposto con le chiusure, le fughe all’estero e il sommerso.

L’economia sommersa.
Dagli anni Novanta, le imprese che dovevano competere sul mercato, non erano più in grado di sopportare il costo dello stato sociale e delle burocrazie. In questa situazione, l’economia sommersa era diventata un mezzo per eludere i vincoli: il costo del lavoro per unità di prodotto in quelle attività si abbassava, lo stesso prodotto diventava competitivo e l’azienda resisteva sul mercato. Si trattava di una soluzione di breve periodo, del tutto spontanea e assolutamente libera da ogni regola, nel bene e nel male. L’economia sommersa indicava quali erano i pesi da rimuovere e intanto li aggirava. Il fenomeno è sempre stato in continuo aumento grazie alle istituzioni e burocrazie di tipo oppressivo, le quali determinavano le condizioni del sommerso, un tipo di economia che, per un certo periodo, ha rappresentato proprio il principale mezzo di sopravvivenza di quelle stesse istituzioni e burocrazie. La gente semplice si domandava: cos’è più utile al Paese, chi si arrangia nel sommerso o chi aspetta il soldo dello Stato? Il fatto era che l’Italia dei furbetti attingeva nei due comparti con estrema naturalezza.

L’economia di carta
Finanzieri spericolati ricorrevano ai servizi di auditors internazionali per quotare in borsa titoli a prezzi gonfiati. Rientravano nell’economia di carta anche le attività imprenditoriali che potevano far conto su un valore aggiunto fittizio in relazione a commesse remunerative perché ottenute senza effettiva competizione, come avveniva per le società di servizi informatici che ricevevano lavoro dai ministeri. Gli amministratori che volevano fare bella figura nel breve periodo, ricorrevano alla tecnica di non fare i lavori ricorrenti di manutenzione, con la conseguenza che, trascorso il periodo del loro mandato, gli impianti erano da sostituire. Un modo come un altro per favorire gli azionisti attuali a danno di quelli futuri. Ora come allora, la caratteristica di questo tipo di economia è che, non appena vengono meno le condizioni che hanno determinato il valore fittizio, il castello crolla e alla fine alcuni operatori perdono il capitale. I soggetti più esposti erano gli istituti di credito, che avrebbero bruciato immense risorse. I cittadini comuni erano privati dei risparmi di una vita, perché avevano seguito i consigli di intermediari, che riuscivano a piazzare i titoli spazzatura provenienti da tutto il mondo.

Le leggine. Il decentramento amministrativo. Le interpellanze. Le intercettazioni.
Assolutamente dannosa per il Paese era la pratica di legiferare a vantaggio di singole zone geografiche o d’interessi particolari: era il caso delle cosiddette leggine che hanno indubbiamente costituito una delle non lievi afflizioni della nostra vita pubblica. Per attenuare il rischio di uso improprio del potere burocratico, le norme del vecchio stato liberale stabilivano che i dipendenti pubblici non potessero occupare un ufficio nel luogo di nascita o dove avevano avuto la residenza per un lungo periodo. Questa norma era stata largamente disapplicata e i nuovi riformatori dello Stato predicavano l’esigenza di attuare un decentramento amministrativo nel quale il burocrate fosse il vicino di casa. Un curioso abuso del ruolo istituzionale si verificava con le interpellanze parlamentari, che venivano ritirate una volta raggiunto lo scopo, quasi sempre di tipo mercantile o propagandistico. La possibilità di ricorrere alle intercettazioni telefoniche o ambientali, per controllare e condizionare, rappresentava uno degli abusi più noti all’interno delle stesse istituzioni. Con il tempo, le indagini giudiziarie si sarebbero basate unicamente sulle cimici piazzate nella camera da letto dell’imputato. Le intercettazioni di cittadini non indagati, finivano sulle prime pagine dei giornali, nonostante le leggi sulla privacy.

La delegittimazione delle istituzioni.
I grandi gruppi economici utilizzavano ogni mezzo mediatico per provocare l’euforia o la paura nel mercato dei risparmiatori e dei consumatori, determinando le condizioni per attuare disegni speculativi. In politica questa tecnica consisteva nel far trapelare notizie, al fine di delegittimare i competitori più scomodi. Tutte le forze di opposizione, i servizi segreti e le fazioni interne dei partiti, svolgevano attività sistematica di dossieraggio quale surrogato del civile confronto tra gruppi. Quei dossier finivano negli uffici dei pm che erano obbligati ad aprire un’indagine. I pm capaci erano quelli che sapevano filtrare le anonime, procedendo nei confronti di chiunque con la medesima professionalità e indipendenza. L’informazione di garanzia, posta a tutela del cittadino, si era trasformata in un’arma impropria nelle mani di soggetti spesso inidonei o irresponsabili. I titolari dei media si battevano, in nome della democrazia, per il diritto del pubblico a conoscere i comportamenti della propria classe dirigente. Al polo opposto, i legalisti evidenziavano le barbarie di uno strumento anomalo che non rispettava i diritti dell’individuo. Con l’andare degli anni la maggioranza dei lettori avrebbe capito che era in corso una guerra tra élites per la reciproca distruzione. I magistrati impegnati affermavano che gli arresti eccellenti ordinati nel corso delle indagini, erano socialmente educativi, perché il cittadino verificava così che la legge è uguale per tutti. Nessuno aveva considerato che in questo modo si finiva per delegittimare la classe dirigente politica ed economica, le burocrazie e la stessa magistratura di cui venivano messi in piazza i panni sporchi. La produzione continua di dossier riservati, il loro utilizzo giudiziario e il numero crescente d’assoluzioni, aveva avuto l’effetto di ripristinare, nell’opinione pubblica, il principio della presunzione di innocenza.

Leggi e magistrati. La giurisprudenza creativa.
Secondo i principi della common law, un uomo può essere accusato in sede civile o penale solo di una colpa chiaramente definita e conosciuta dalla legge. In Italia, l’indagine giudiziaria è stata per lunghi anni incontrollata. I testi a carico potevano deporre in segreto o in assenza dell’imputato, che era esposto a una segreta intimidazione. La confessione poteva essergli estorta, al punto di riconoscersi colpevole sotto la pressione di un ricatto. La giurisprudenza creativa aveva occupato il posto delle leggi. Si poteva essere mafiosi concorrendovi dall’esterno: le testimonianze di pluriassassini erano assunte a base di istruttorie senza fine. Un vero paradiso per i finti pentiti che ricevevano stipendi e protezione. S’importava il modello Usa, senza le strutture e la tradizione liberale degli americani. Un Pm aveva il diritto di interrogare un testimone in assenza del rappresentante dell’accusato e la testimonianza poteva essere utilizzata nel processo. Molti cittadini erano arrestati sulla base di indizi e tenuti in prigione per convincerli a collaborare con la giustizia. Le istituzioni non garantivano più la certezza del diritto e gli effetti, anche economici, di questa situazione, si sarebbero fatti sentire nel tempo. La retroattività della giurisprudenza, fece capire agli italiani che i giudici contavano più delle leggi. Questi sinistri pericoli sarebbero stati in gran parte eliminati grazie al legislatore europeo.

Mani pulite
È stata molto singolare la rincorsa giudiziaria per trovare prove a carico degli uomini di partito e di tanti manager della prima Repubblica, quando sarebbe bastato prendere atto della professione svolta. Tutti gli italiani sapevano che quegli uomini avevano utilizzato o procacciato risorse illegali per le campagne elettorali. Mani pulite aveva portato alla luce comportamenti un tempo diffusi. Il funzionario pubblico che arrotondava lo stipendio, il manager che prendeva la percentuale sulle commesse per sé e per una qualche organizzazione, il commerciante che evadeva il fisco, agivano secondo una prassi ritenuta fisiologica al sistema-Paese degli anni settanta e ottanta. La gogna della prigione come momento di umiliazione pubblica, non rappresentava la consapevolezza di un errore cui si era pronti a porre rimedio: la vergogna stava nel fatto di essere incappati nella giustizia. La rivoluzione delle procure era vista dall’italiano medio secondo gli interessi personali a rischio e l’area politica di appartenenza. Secondo i tifosi del pool milanese, la procura avrebbe indicato la strada per migliorare il livello etico negli affari e nella politica. Nella squadra opposta, si denunciava la manipolazione della verità storica e lo stravolgimento dello stato di diritto. Il disegno di cambiare la società per via giudiziaria sarebbe fallito, come hanno dovuto ammettere gli stessi protagonisti di quella sofferta stagione della nostra democrazia.

La sfida tecnologica. Italiani assemblatori
Dopo la Prima Repubblica, le politiche di protezionismo furono abbandonate in Europa, perché la domanda interna non consentiva più di saturare le esigenze della produzione e di mantenere costante il livello dei salari reali. Quando un operatore assorbiva un’azienda per poi trasformarla in presidio commerciale, si affermava che era stato attuato un serio e inevitabile programma di riconversione. Non appena il top management di un’impresa avvertiva che la produzione stava diventando matura, decideva subito di abbandonarla e di trasferire il capitale verso altre attività con un futuro. Era praticata la cosiddetta eliminazione salvifica delle imprese inefficienti, senza riguardo per il problema occupazionale. Le ristrutturazioni aziendali avevano l’effetto di far crollare il morale dei dipendenti. V’è sempre stata una contraddizione tra i proclami come le persone sono la nostra principale risorsa e la realtà dei fatti che dimostrava come le persone fossero, in effetti, la risorsa più facilmente liquidabile. Agli inizi degli anni Ottanta, durante un convegno del più importante partito di governo, alcune teste d’uovo teorizzarono l’inutilità di investire nelle innovazioni, dal momento che le tecnologie possono essere acquistate in qualunque negozio. Si stentava a capire che il nostro Paese era destinato a un’attività di assemblaggio, cioè di prestazione di mano d’opera con scarso valore aggiunto e in competizione con quella meno pagata al mondo.

Efficienza del sistema-Paese e ruolo dello Stato in economia.
Al fine di rimediare alle degenerazioni derivanti dall’uso improprio dei beni collettivi, era necessario comprendere il seguente fondamentale assunto: quel che conta non è il costo dei beni e dei servizi posto a carico del cittadino, bensì il costo complessivo che per essi sopporta il sistema-Paese. Per divulgare tale cultura di massa si riducevano gli spazi economici dell’operatore pubblico che non era più considerato in grado di gestire in modo efficiente. In quel periodo era di moda far credere che bastasse pagare le tasse giuste e redigere bilanci corretti per attuare un sistema equilibrato e stabile, come se un individuo che percepisse un’immeritata remunerazione perdesse la caratteristica di essere un parassita per il solo fatto che dichiarava all’erario fino all’ultima lira. L’etica della competizione non poteva da sola determinare l’eguaglianza delle opportunità. Non si poteva seriamente pensare a un governo inerte rispetto al verificarsi di particolari eventi sociali o economici, insensibile alle richieste delle imprese che chiedevano protezioni, sussidi, franchigie, per essere in grado di resistere sui mercati. La classe dirigente della Seconda Repubblica avrebbe demonizzato il passato per trarne vantaggi elettorali, senza cambiare d’un millimetro gli standard di efficienza d’imprese, burocrazie e istituzioni. Al punto che molti italiani avrebbero cominciato a rimpiangere i bei tempi andati della Prima Repubblica.

 

 

 

 

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