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Referendum, no a Berlusconi dal centro destra

di Marco Benedetto |14 Giugno 2011 13:15

Probabilmente il centrodestra aveva sottovalutato l’impatto politico dell’esito dei referendum. Pur avendo la percezione che sarebbe stato negativo per il governo, nessuno dell’entourage berlusconiano immaginava conseguenze tanto devastanti.

Certo, l’onda della sconfitta alle elezioni amministrative ha potenziato l’affluenza alle urne e, dunque, il raggiungimento del quorum, le cui proporzioni sono state ingigantite dal concorso decisivo di buona parte dell’elettorato del Pdl e della Lega. Numerosi esponenti di primo piano dei due partiti di maggioranza, infatti, non soltanto si sono recati a votare, ma, dichiarando le loro intenzioni, hanno reso possibile il verificarsi dell’effetto trascinamento che Berlusconi ed i suoi più stretti collaboratori non potevano immaginare dal momento che coloro i quali hanno votato per l’abrogazione delle tre leggi o di alcune di esse sono gli stessi che in Parlamento le avevano votate.

Bizzarro e sconcertante: a pensarci bene un tale atteggiamento indica come la coalizione di centrodestra sia ridotta, priva di coesione politica e di strategia al punto che in tanti, da Alemanno a Scajola, chiedono ben più che un cambio di marcia. Pretendono una vera e propria inversione di rotta. E trovano nella Lega, in particolare in Maroni e Calderoli, le sponde più sicure al fine di provare a cambiare radicalmente gli assetti del centrodestra.

Perciò, se si può dire che la sinistra, facendo il suo gioco (all’opposizione tutto è consentito, compresa l’ipocrisia) ha strumentalizzato i quesiti referendari per dare maggior peso alla richiesta di dimissioni (che non otterrà) di Berlusconi, non si può negare che settori della destra, avvalendosi della libertà di coscienza riconosciuta dai leader, ne hanno approfittato per accelerare il ricambio al vertice del centrodestra e della politica, soprattutto economica, fin qui perseguita. Sicché si può dire che a mandare in crisi la maggioranza, più che l’opposizione siano stati settori ben individuabili della coalizione, valutabili almeno il dieci per cento del totale del quorum.

Ciò significa che la crisi si è sviluppata tutta all’interno del mondo berlusconiano dove allignano oggettivi e ragionevoli dissapori che fanno dire, senza esagerazione alcuna, ormai a chiunque, che una stagione politica è finita, un ciclo si è chiuso dopo diciassette anni, ma non è alle viste il classico salto nel buio, come qualche sprovveduto oppositore immagina, almeno fino a quando Berlusconi avrà i numeri in Parlamento che consentano di non staccare la spina. Operazione questa a cui la Lega oltretutto non si presterà dal momento che dalle elezioni anticipate (non essendovi alle viste credibili ipotesi di governi di decantazione) ricaverebbe soltanto ulteriori delusioni, in termini numerici e politici: non porterebbe a casa l’agognato federalismo e dovrebbe abbandonare per sempre la prospettiva di far mutare d’opinione Tremonti sul patto di stabilità che non consente ai comuni virtuosi, quasi tutti allocati al Nord, di poter spendere i molti soldi che hanno in cassa.

Fino a quando la Lega potrà influire sul governo nel senso di far allargare le maglie della finanza locale, potrà sperare di risalire la china, diversamente vedrà ridurre i suoi consensi in maniera considerevole ed in tempi brevissimi: le avvisaglie alle amministrative si sono manifestate in maniera preoccupante.

La maggioranza è, dunque, consapevole che sommando il risultato amministrativo con quello referendario è diventata, sia pure virtualmente, minoranza nel Paese. Questo non vuol dire che il governo deve promuovere il suicidio elettorale del centrodestra anticipando la fine della legislatura come vorrebbero le opposizioni. Ma certamente al fine di evitare di vedersi ratificare dal popolo tra un anno o due un verdetto che con tutta evidenza sarebbe negativo se l’attuale trend non dovesse modificarsi, il Pdl, ha la necessità di accollarsi tutto il disagio manifestato dal suo stesso elettorato traendone l’unica lezione possibile: il dovere di rivoluzionare la sua politica, le sue strategie, la sua classe dirigente, nei modi e nelle forme che verranno ritenuti più opportuni non soltanto da chi ha guidato finora il partito, ma anche da chi ha subito le scelte di oligarchi che, con negligenza ed arroganza, si sono ben guardati dal coinvolgere intorno ad esse la base e gli eletti.

Tanto il voto amministrativo che quello referendario hanno attestato, al di là di ogni dubbio, che il potere dei diadochi non basta più, anzi è nocivo a quel che resta del Pdl. Se è servito a conquistare il potere mantenendolo per una stagione, più o meno lunga, certo non ha prodotto i risultati che era lecito attendersi. Le riforme annunciate per anni non si sono viste, il Paese non è cambiato, la società italiana risulta impoverita economicamente e culturalmente al punto di non comprendere gli indirizzi modernizzatori espressi nelle leggi sulla privatizzazione della gestione della rete idrica e sul progetto di dotare l’Italia di centrali nucleari. Il che fa intendere come il ceto politico dominante non abbia preparato i cittadini – e neppure buona parte della sua classe dirigente e dei suoi elettori – a proiettare su un orizzonte possibile, per quanto discutibile, ma certamente anche avventuroso, le loro richieste di innovazione.

Dal canto suo la propaganda della sinistra ha operato ancora una volta al meglio, mentre il centrodestra si è dannato l’anima non per penetrare nei gangli vitali degli orientamenti di senso, dove si formano le dinamiche sociali ed intellettuali, ma per espungere “pericolosi sovversivi” dalla Rai, tanto per fare un esempio, senza minimamente immaginare che è sempre più produttivo aggiungere piuttosto che tentare di sottrarre o costruire “vittime” che inevitabilmente si offrono come prove della deriva assolutistica acquisita da chi pure si era presentato avvolto nelle vesti del liberale.

Insomma, la faccenda si è fatta maledettamente critica perché chi avrebbe dovuto rivoluzionare il sistema si è lasciato impigliare nelle sue stesse maglie. E a poco serve raccogliere le critiche costruttive, anche se corrosive talvolta, formulate in tempi non sospetti, da chi pure era e resta organico ad una destra possibile, ad un conservatorismo popolare, e rilanciarle in questa occasione come postume testimonianze dei pericoli cui si sarebbe andati incontro sviluppando politiche populiste e personaliste quando tutto consigliava un sano realismo nell’approcciarsi alla soluzione di questioni economiche e sociali nei limiti che la crisi imponeva, ma pure lavorando in vista di una crescita i dispensabile per il rilancio dell’occupazione.

Non è consolante ammettere che chi avrebbe potuto dare un contributo fattivo all’espansione della politica del centrodestra è stato sistematicamente emarginato, mentre è francamente deprimente attraversare le lande desolate e depresse di una coalizione ricavandone la sensazione che coloro i quali dovrebbero reagire sono in realtà rassegnati. Per quanto? Per un anno, due anni, o soltanto fino alla verifica parlamentare che ci sarà tra pochi giorni?

Reagire. Non è possibile fare altro da parte di chi è consapevole che un ciclo si sta chiudendo, ma non è detto che non se ne possa aprire un altro, liberandosi innanzitutto dei falsi prudenti e dei veri servi.

Ci si riuscirà? Berlusconi probabilmente è consapevole che le micro-scissioni subite finora appariranno meno di leggeri solletichi a fronte dell’implosione di tutto il centrodestra se non sarà lui stesso a chiedere una riflessione, correlata a decisioni al centro delle quali vi sia anche la sua persona, a dimostrazione che un leader è tale non quando riscuote facili applausi, ma quando assume su stesso la responsabilità di disfatte politiche dalle quali può rinascere uno spirito nuovo su cui costruire una stagione non più soltanto di affermazioni elettorali, ma di vittorie che valgano a cambiare il volto di un Paese.

Questa è la sola speranza che il centrodestra può verosimilmente nutrire. La speranza, per il sistema bipolare, è che ne sia all’altezza.

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