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In house providing: i piedi della politica nella P. A. Il caso Lazio

di Warsamé Dini Casali |26 Febbraio 2020 10:06

ROMA – L’in house providing, espressione apparsa in ambito comunitario nel 1998, è la forma giuridica utilizzata per indicare i casi di “autoproduzione” di beni, servizi da parte della pubblica amministrazione, che si verificano quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio all’interno della propria compagine organizzativa, senza ricorrere a soggetti esterni operanti sul mercato tramite una procedura di gara. L’utilizzo dell’in house providing ha avuto una larghissima diffusione nella pubblica amministrazione italiana, con le Regioni in prima fila. Il perimetro delle attività si è via via ampliato, dai servizi di utilità pubblica ai servizi meramente strumentali ed allo svolgimento dell’attività amministrativa, sollevando molte discussioni sull’uso di tale modello organizzativo.

Il caso della Regione Lazio, oggetto specifico del presente studio, consente di analizzare natura, limiti, uso ed abuso dell’in house providing, muovendo l’indagine dalle modalità di recepimento nella legislazione nazionale. La disciplina dell’in house providing, nella sua originaria formulazione comunitaria, ha inteso colmare una lacuna dell’ordinamento, individuando caratteri e limiti di un procedimento che resta pur sempre un’eccezione rispetto alla regola generale per cui le amministrazioni pubbliche acquisiscono beni e servizi ricorrendo al mercato attraverso procedimenti ad evidenza pubblica.

Nella tutela del mercato il legislatore comunitario ha ritenuto di individuare la premessa regolatoria delle società in house, escludendole da qualsiasi attività esterna rispetto alla pubblica amministrazione e ritenendo in esse implicitamente soddisfatta la realizzazione della economicità dei costi. Tuttavia, l’economicità non è intesa nel senso di uso efficiente delle risorse produttive, ma più limitatamente come possibilità per la società in house di coprire attraverso contratti pubblici, in tutto o in parte rilevante, i costi generali di impresa, con un evidente vantaggio competitivo rispetto alle società operanti sul mercato. Ma il fatto che questa condizione di efficienza sia reputata soddisfatta non implica di per sé che lo sia nella realtà: per il motivo evidente che si tratta di imprese non contendibili in cui la valutazione dell’efficienza attraverso il mercato è esclusa da una norma che, intesa a tutelare il mercato da tali imprese, le ha di fatto protette dalla disciplina del mercato stesso.

Questo paradosso ha offerto alla politica uno straordinario strumento in cui: la forma privatistica societaria ha sottratto le imprese in house alle procedure vincolistiche della pubblica amministrazione; ed i limiti posti dal legislatore all’attività di tali imprese sul mercato le ha sottratte alla disciplina ed al controllo dell’efficienza economica. Si è formato così un territorio protetto dove scatenare due impulsi difficilmente contenibili: le assunzioni clientelari e l’assegnazione discrezionale dei progetti.

La questione, in termini generali, è stata sollevata con grande rilievo in questi ultimi anni (Cesare Salvi, Massimo Villone, I costi della democrazia, Mondadori, 2007; Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, La casta, Rizzoli, 2007 e, con riferimenti al Lazio, Marcello Degni, Micromega n.3/2010), mostrando che proprio le aziende partecipate rappresentano un potente veicolo di alimentazione dei costi della politica. Il legislatore nazionale ha cercato di arginare il fenomeno con norme restrittive della possibilità di costituire società da parte degli enti appartenenti alla pubblica amministrazione ma, come emerge dalla interpretazione, abnormemente estensiva, delle disposizioni legislative, tale intento è stato largamente eluso.

Un primo rimedio per contrastare questa deriva consiste in una maggiore delimitazione degli ambiti di impresa attualmente svolti dalle società in house: che sia circoscritta a quelle attività per le quali è possibile il confronto, in termini di economicità, con uguali attività esistenti sul mercato (o con analoghe strutture diffuse in altre regioni). Le altre attività, è questo un primo punto di conclusione, vanno ricondotte nell’ambito della pubblica amministrazione, utilizzando, quando è opportuno, lo strumento più agile dell’Agenzia.

La disciplina delle forme esterne alla amministrazione regionale trova negli statuti una importante forma di regolamentazione. Dalla comparazione delle norme delle regioni ordinarie si ricavano interessanti analogie e differenze, utili per regolare il fenomeno. Un primo elemento di convergenza (che in realtà dà attuazione ad un precetto costituzionale) riguarda il ricorso alla legge per l’istituzione degli enti e per autorizzare la regione a promuovere la costituzione di società di diritto privato, ovvero a parteciparle. Per questo ultimo profilo, alcuni statuti parlano di norme generali e di legge specifica per la partecipazione ad associazioni, fondazioni o società, lasciando intravvedere l’ipotesi di una legge quadro e di specifiche leggi per l’istituzione di una partecipazione. Sono principi importanti, non sempre applicati nella prassi. La legge cornice può delineare uno schema omogeneo di governance esterna ed interna e la legge specifica garantisce una maggiore ponderazione dell’assemblea regionale, evitando che una società venga inserita nell’ordinamento regionale attraverso un comma o un articolo di un provvedimento finanziario (sia Sviluppo Lazio che Unionfidi sono state istituite con la legge di bilancio, rispettivamente del 1999 e del 1997).

Nel prevedere l’istituzione di enti regionali alcuni statuti pongono limiti di contenuto, relativi alle finalità per cui è autorizzata l’istituzione dell’ente, mentre altri contemplano l’ipotesi di istituire nuovi enti o società o partecipare a quelle già costituite quando l’affidamento delle funzioni amministrative agli enti locali si riveli non praticabile (sussidiarietà). La declinazione esplicita degli ambiti settoriali a livello statutario potrebbe riuscire nell’intento di circoscrivere la proliferazione delle strutture impedendo alla politica di considerare ogni attività “strettamente necessaria per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”. Lo stesso obiettivo si potrebbe conseguire attraverso la previsione di una maggioranza qualificata per l’approvazione delle leggi istitutive di nuovi enti o di autorizzazione ad assumere partecipazioni in società private, presente in alcuni statuti, che potrebbe rappresentare un vincolo stringente.

Non sono molti gli statuti regionali che introducono una distinzione tipologica tra i diversi enti regionali: oltre al Lazio, tale scelta è effettuata dagli statuti del Veneto, dell’Abruzzo e del Molise. In tutti i casi, la tipizzazione si centra sulla distinzione tra enti economici (aziende), enti non economici e agenzie, considerate una vera e propria articolazione esterna dell’amministrazione regionale. In pratica si affianca alle direzioni regionali ordinarie questa diversa struttura, quando un grumo di funzioni assume una specificità tale, a parere della giunta regionale, da giustificare una gestione separata. La distinzione rispetto alla amministrazione è in questo caso solo funzionale. Il dirigente e i dipendenti sono regionali, le procedure amministrative sono quelle della amministrazione, non esiste autonomia di bilancio. Lo strumento, che evita anche i problemi che si creano con il personale dipendente dagli enti economici, il cui rapporto di lavoro è regolato dal diritto comune, ed al quale pertanto si applica il contratto collettivo di categoria (differente da ente ad ente) va, a nostro avviso, valorizzato. Nel processo di internalizzazione, che deve essere ancor più netto rispetto alle timide realizzazioni degli ultimi anni, l’istituzione di Agenzie regionali può essere uno strumento molto utile, attraverso il quale spostare su un sentiero di maggiore efficienza anche attività attualmente gestite direttamente dall’amministrazione (ad esempio l’accertamento e la riscossione delle entrate o la gestione del sistema dei pagamenti sanitari).

Le soluzioni più disparate si trovano invece negli statuti per quel che riguarda la delicata materia delle nomine. Le soluzioni delineate su questi temi sono più o meno convincenti: in linea di principio sembra preferibile che l’organo di governo deputato ad effettuare le nomine alla dirigenza degli enti regionali non eserciti poi la funzione di controllo sull’osservanza degli indirizzi e sul conseguimento degli obiettivi fissati negli atti di programmazione territoriale, controllo che potrebbe essere assegnato di regola al Consiglio regionale, mentre la vigilanza e il controllo sui singoli atti potrebbe essere assicurato dall’organo esecutivo. Si pone comunque il problema di assicurare che il Consiglio abbia voce in capitolo nelle nomine che, nella maggior parte dei casi, sono effettuate dalla Giunta.

A tale proposito, si ricorda che la legge statale prevede che sulla nomina alla Presidenza di alcuni enti, il Governo debba acquisire preliminarmente il parere della Commissione competente sul candidato proposto. Né la legge, né i regolamenti, né la prassi consentono lo svolgimento dell’audizione del candidato, che è conosciuto dalla Commissione solo attraverso la comunicazione del curriculum vitae. Per questo aspetto, la normativa regionale potrebbe fare dei passi in avanti, prevedendo procedure di hearings soprattutto nel caso di nomina a cariche monocratiche, l’espressione del parere a maggioranza qualificata e l’obbligo della Giunta di motivare l’eventuale decisione in contrasto con il parere espresso.

Le nomine rappresentano per la politica un oscuro oggetto del desiderio. L’impulso alla colonizzazione di aziende (incluse quelle sanitarie e ospedaliere), enti, agenzie (e anche direzioni regionali, attraverso l’impiego smodato della possibilità, consentita da una legislazione troppo permissiva, di assunzioni esterne), è irrefrenabile. E’ il terzo motivo che suscita un interesse distorto della politica per le vicende delle aziende regionali. La governance interna viene utilizzata, con approccio largamente bipartisan, per collocare personale politico, senza minimamente tenere conto delle competenze curricolari dei soggetti prescelti. Il modello dominante (Presidente, CDA, collegio dei sindaci, direzione generale) mostra, nella prassi, notevoli criticità. In particolare il CDA che, in aziende con un solo azionista (l’ente) e un unico cliente (l’ente), presenta forti elementi di ridondanza sotto il profilo funzionale.

Può avere una funzione utile nelle società in house formate da più enti (ad esempio la Regione ed altri enti locali del territorio). Ma quando la partecipazione regionale è totalitaria (o predominante), il CDA si riduce ad essere esclusivamente un organo di lottizzazione politica. I partiti di maggioranza tendono a ripartirsi le presidenze, quelli di opposizione ad avere rappresentanza minoritaria nei CDA. Molto spesso ciò avviene, come si è detto, a scapito della professionalità e della competenza manageriale che caratterizza generalmente la scelta dei componenti dei CDA delle società private. Particolarmente negativa è poi la tendenza a ripartire le deleghe all’interno dei CDA (rispetto ad un indirizzo collegiale). In questo caso si creano ulteriori compartimenti stagni, completamente estranei alla missione aziendale. La curvatura impressa a questo processo dal potere monocratico del Presidente spesso, anziché semplificare, inserisce un ulteriore elemento di stratificazione.

Trasparenza, maggioranze qualificate, audizioni preliminari, rappresentano un sentiero sicuramente virtuoso, da percorrere con innovazioni normative. Ma si può dare un impulso ancora più forte. Il CDA è superfluo. Il modello meglio rispondente alla governance interna delle società in house, sembra essere quello del direttore generale (come nel caso delle aziende sanitarie), scelto con criteri attenti alla professionalità e coadiuvato da una sorta di consiglio di sorveglianza (espressione selezionata delle parti sociali), con funzioni di garanzia e senza possibilità di influire sulla gestione (e gratuito, per non creare nuove rendite di posizione e aggravi sulla finanza pubblica).

Gli spunti che emergono dall’esame degli statuti sono arricchiti dall’esame delle soluzioni che, relativamente alla governance esterna, offre la legislazione regionale. Il modello prevalente è quello della programmazione triennale a scorrimento (programma triennale e piano annuale). Il meccanismo di approvazione di programmi e piani coinvolge simultaneamente sia l’organo di governo (Giunta), che quello assembleare (Consiglio). Approva l’organo di governo, ma al termine di una procedura consultiva (della Commissione bilancio) e concertativa (delle parti sociali). La tara sull’impatto effettivo di questi meccanismi è data da una prassi spesso caratterizzata da sensibili omissioni e ritardi (per cui può capitare che il piano preventivo sia approvato ad anno ormai concluso). Queste procedure devono essere rivitalizzate, subordinando al loro perfezionamento l’operatività stessa delle aziende.

La società regionale va circoscritta a quelle attività per le quali è possibile il confronto, in termini di economicità, con uguali attività esistenti sul mercato (o con analoghe strutture diffuse in altre regioni); riconducendo le altre attività nell’ambito dell’ente, utilizzando ampiamente lo strumento più agile dell’Agenzia. Da analisi di livello nazionale (Finlombarda, 2011) emerge che in termini di valore di produzione, si possono individuare due distinti modelli regionali: quello basato su una clientela mista pubblico-privata (che prevale in 15 Regioni) e quello in cui predominano le partecipate che servono esclusivamente enti pubblici (che prevale in 5 Regioni, tra cui il Lazio). In termini di valore della produzione la prevalenza del modello essenzialmente pubblico prevale nei settori dell’ICT e del sostegno allo sviluppo.

Oltre alle aziende di servizio pubblico locale (che nelle Regioni, come è noto, significano fondamentalmente trasporto) sono stati individuati tre settori in cui si ritrova una diffusione larga (anche se non piena) di strutture esterne alla amministrazione: il sostegno allo sviluppo, i centri di studi e ricerca, e le aziende strumentali (con particolare riferimento all’ICT). Sono tre ambiti molto rilevanti per le Regioni. La promozione dello sviluppo è compito primario delle Regioni. La politica industriale è per grande parte di competenza regionale. E tra le prime aziende regionali si annoverano le finanziarie per lo sviluppo, sorte quasi ovunque dalla fine degli anni settanta in avanti. Quello delle agenzie di sviluppo è uno strumento organizzativo eminentemente tecnologico largamente diffuso nelle esperienze regionali italiane ed europee, generalmente snello nella struttura ed incorporato nell’apparato amministrativo, pur avendo maggiori margini di autonomia. Si tratta di organizzazioni che operano in relazione diretta con il governo regionale, svolgendo una essenziale funzione di sostegno alle politiche di sviluppo e di raccordo con il territorio.  A queste caratteristiche risponde nel Lazio preminentemente Filas e, per alcune attività, BIC e Sviluppo Lazio . La riunificazione di queste competenze in una struttura snella e fortemente orientata professionalmente, sotto la direzione di una cabina di regia regionale, è la soluzione più idonea per superare le attuali duplicazioni.

La conoscenza del territorio, della società e della economia regionale, da sempre importante, assume particolare rilievo dopo la riforma costituzionale del 2001. Il federalismo non può essere affrontato senza una profonda ricognizione economica e sociale dei vari territori, premessa per la conoscenza dei fabbisogni finanziari corrispondenti alle funzioni attribuite alle regioni dalla riforma federale. E’ necessario un lavoro di indagine, capace di cogliere i ritardi e le deficienze strutturali e come questi si riflettono sulle funzioni di produzione dei beni pubblici. Queste motivazioni si sono aggiunte ad altre più risalenti che hanno indotto molte Regioni italiane a dare vita ad autonome strutture di studio e ricerca. Nel Lazio i limiti soggettivi, soprattutto della politica, hanno impedito il conseguimento di questo obiettivo, vanificando importanti esperienze sviluppate nella VIII legislatura, nonostante il bisogno di una struttura di studio e ricerca, per una regione, come quella laziale, duale e anticiclica, sia notevole.

Le aziende ICT sono presenti in 16 regioni italiane , producono un valore di 850 milioni di euro e occupano circa 5.000 dipendenti. Nel Lazio c’è Lait, afflitta da seri problemi di governance esterna e (soprattutto) interna, che vanno risolti senza ulteriori ritardi. Dal perimetro societario così ritagliato restano fuori due oggetti che non hanno confronti in altre realtà regionali, finalizzati ad attività ibride di sostegno finanziario ed occupazionale: si tratta di BIL e di Lazio Service. Né la prima, unitamente al suo doppione Unionfidi, né la seconda, sembrano utili, come ampiamente documentato, allo sviluppo regionale.

La storia del processo di formazione delle società regionali vede nel Lazio una forte espansione tra la fine della VI (Badaloni) e, soprattutto, nella VII legislatura (Storace) e un processo inverso nella VIII (Marrazzo) e nella IX (Polverini) in corso. Il tema della riorganizzazione delle società regionali e delle partecipazioni venne affrontato, all’inizio della VIII legislatura con un approccio riformatore molto avanzato. Una apposita commissione venne istituita nell’ottobre 2005 ed effettuò, in circa cinque mesi, una approfondita ricognizione della situazione e una proposta organica di riforma. La ricognizione rivelò una profonda stratificazione della situazione delle partecipazioni regionali e molte criticità. Le proposte della commissione sono rimaste largamente inattuate, analogamente all’ottimo proposito, sancito con legge, di trasformare gli enti pubblici in agenzie. Il cammino è ripreso, con contraddizioni, nella legislatura in corso.

L’articolazione delle strutture esterne alla amministrazione regionale, per la gestione delle funzioni più svariate, è molto ampio. Una vera e propria galassia, dai contorni sfumati, che rende difficile ricostruire una rappresentazione sintetica ed esauriente capace di mostrarne le caratteristiche fondamentali. Le motivazioni che hanno determinato la scelta di un involucro piuttosto che un altro (società, ente strumentale, agenzia o branca della amministrazione) per lo svolgimento di una specifica funzione, si perdono spesso in una stratificata legislazione risalente o sono rinvenibili nelle scelte estemporanee del decisore politico.

Per questo è stata effettuata una ricognizione analitica articolata per settori, per dare conto delle principali vicende. Dalla ricognizione risultano 67 società, cui vanno aggiunte altre 11 partecipate Filas, per un totale di 78 società (oltre alle 35 partecipazioni vincolate di Filas). La prima distinzione rilevata è quella tra partecipazioni dirette della Regione e partecipazioni indirette. Le prime sono 24, le seconde 54 (sempre escludendo le partecipazioni vincolate di Filas). Vengono distinte, con un certo grado di indeterminatezza, le società operative da quelle liquidate (o le cui partecipazioni sono state cedute) ovvero per cui sono in corso le relative procedure (sulla base delle recenti deliberazioni). Risultano sicuramente attive 39 società (o partecipazioni), di cui 18 direttamente partecipate dalla Regione e 21 partecipazioni indirette. Le società liquidate o cedute sono 26 (di cui 4 partecipazioni dirette e 22 indirette). Le 4 partecipazioni dirette sono state avviate a dismissione nella IX legislatura. Delle 22 indirette 15 nella IX legislatura e 7 nella VIII. Di 13 strutture (2 dirette e 10 indirette) non si hanno informazioni certe.

Le società del gruppo SL occupano complessivamente 326 persone (SL 137, BIC 77, Filas 44, Unionfidi 18, Litorale 12, Asclepion 8 e Risorsa 30). Lait ha in forza 256 dipendenti e Lazio Service 1.370. L’ Agenzia per lo sviluppo e la innovazione della agricoltura nel Lazio (ARSIAL) detiene la maggioranza di due società: l’Enoteca regionale srl e la Monti Cimini SPA. La prima è un ristorante di prodotti regionali situato al centro di Roma (in via Frattina). La seconda è una SPA a partecipazione mista pubblico-privata che opera nel settore della produzione, trasformazione e commercializzazione della nocciola Tonda Gentile Romana in un impianto situato nel Comune di Vignanello, in provincia di Viterbo. Per quanto riguarda gli enti nel complesso si registrano 66 strutture. 26 enti pubblici regionali (tra cui 7 ATER, che hanno natura di ente pubblico economico), 5 agenzie (dopo la “ritirata” della LR1/08) e 19 enti privati. 12 strutture risultano “dismesse”, cioè ricondotte nell’ambito della amministrazione, oppure, nel caso di enti privati, è stato deliberato il ritiro della partecipazione regionale.

Tra società regionali operative (dirette e indirette, escludendo le partecipazioni minori) e enti pubblici (e agenzie), permangono in attività, allo stato attuale, 50 strutture (19 società, 26 enti pubblici e 5 agenzie), cui va aggiunto l’ASAP che, pur essendo un ente privato, va considerato a tutti gli effetti una struttura regionale. Complessivamente queste organizzazioni occupano, per quanto è stato possibile rilevare, oltre 7.000 dipendenti (mancano principalmente, nel conteggio, i dipendenti di 6 ATER, stimabili in alcune centinaia). Nel complesso quindi si rilevano circa 7.500 dipendenti occupati nella galassia regionale esterna alla amministrazione (che complessivamente, senza considerare il consiglio regionale, ha in forza 2.690 persone, di cui 165 ripartite tra le 5 agenzie). A questi si aggiunge il plotone degli amministratori stimabili (tra presidenti, consiglieri di amministrazione e sindaci) in oltre 300 persone, per un costo complessivo superiore ai 2 milioni di euro l’anno.

Visto il confine piuttosto labile tra le diverse tipologie organizzative, per fornire una rappresentazione della galassia degli enti e delle società regionali, con un livello di documentazione significativo, viene effettuata una rassegna integrata per settori, negli ambiti non trattati specificamente nella ricerca. La rappresentazione è necessariamente impressionistica, anche se emergono alcune situazioni estremamente singolari. Ad esempio nel settore della formazione la dispersione e la sovrapposizione tra ADISU, ASAP e Istituto Jemolo è veramente notevole. In particolare la finalità di quest’ultimo, declinata nell’art.1 della legge istitutiva, appare molto discutibile: “la Regione, per favorire il soddisfacimento della domanda di giustizia della società civile laziale, concorre alla preparazione ed all’aggiornamento dei cittadini residenti nel Lazio interessati alle carriere giudiziarie e forensi”. Difficile individuare una specificità laziale nella domanda di giustizia (rispetto a quella di altri territori) e soprattutto porre in relazione questo anelito con l’incentivazione, al popolo laziale, a farsi avvocato o magistrato.

L’analisi approfondita delle principali società regionali è stata effettuata analizzando le risultanze dei bilanci degli ultimi anni e, ove possibile, delle relative note integrative. Si parte da Sviluppo Lazio, la holding mancata. La governance della società (Presidenza, CDA, Direzione) ha visto, tra la settima e la nona legislatura tre avvicendamenti, coincidenti, con sfasamenti, con l’alternanza delle Giunte regionali. Il modulo organizzativo originario è stato molto fluido, centrato sulla direzione, e finalizzato alla ingegnerizzazione del processo di cartolarizzazione dei crediti sanitari, sotto la guida dell’assessorato al bilancio. Nella gestione successiva gli iniziali propositi riformatori della nuova amministrazione, finalizzati alla creazione di una vera e propria holding, si sono rapidamente arenati sulla contesa tra assessorati (bilancio e innovazione) per la guida strategica della società. Lo stallo ha portato ad una soluzione interna di basso profilo e ad uno sfarinamento della missione aziendale, dispersa tra molte attività non strategiche, in sovrapposizione con altre società regionali.

fallimenti aziendali nei settori strategici (centro studi e ciclo di programmazione 2007 -2013 dei fondi comunitari) hanno consegnato alla legislatura in corso una società senza progettualità, depauperata di molte professionalità e collaborazioni. SL sta vivendo un momento di eclisse con la Regione, non semplice da superare. Il personale di SL conta tra le proprie file 148 dipendenti, tra cui 6 dirigenti (compreso il direttore generale), 44 quadri direttivi e 98 impiegati. Rispetto al 2007, si è avuto un incremento piuttosto consistente degli impiegati (+18 unità) ma anche dei quadri (+7 unità). In generale, si può dire che l’ingrossamento delle file di SL è una tendenza in atto dalla sua costituzione nel 1999, quando la società era composta da poche decine di dipendenti. Il costo complessivo dei dipendenti è di circa 9 milioni di euro all’anno. E se le spese del personale costituiscono un elemento rilevante all’interno dei costi totali che SL fronteggia ogni anno (30,6 milioni di euro nel 2007, 31,8 milioni nel 2008 e 29 milioni nel 2009), la parte più consistente delle spese è tuttavia appannaggio di quelle che, nel bilancio, vengono definite “altre spese amministrative”, vale a dire, consulenze, spese generali e pubblicità e organizzazione convegni. In sostanza, per finanziare l’attività di SL ci sono voluti in media, tra il 2007 e il 2009, circa 30 milioni di euro l’anno, di cui 15-16 milioni tra CDA, collegio sindacale, personale dipendente e consulenze varie.

Le spese per consulenze rappresentano un elemento di forte criticità. Se si scende nel dettaglio delle poste si scopre un elenco di committenze veicolate dai vari settori della amministrazione, di scarso valore strategico, che ben difficilmente avrebbero potuto inverarsi con la normale procedura amministrativa (legge regionale, delibera di giunta, determina dirigenziale, procedure concorsuali per la selezione dei soggetti, assegnazione dell’incarico) e contabile (determina di impegno, prenotazione dei fondi, mandato di pagamento, accredito in tesoreria). Con le normali procedure dei circa 45,5 milioni di euro nel triennio 2007 – 2009 ben poco si sarebbe trasformato in feste dell’agricoltura, dell’ambiente, della partecipazione, del turismo e quant’altro, con indubbio beneficio per le casse regionali. La pressione della politica è anche in questo segmento molto forte e la forma societaria, superando il freno dell’azione amministrativa, agevola l’utilizzo inefficace delle risorse pubbliche (si ricorda sul punto la affermazione della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo della Lombardia, parere 48/2008, sulla necessità di evitare che lo schema societario divenga “strumento abusivo per evitare le procedure ad evidenza pubblica che presiedono alla attività contrattuale delle amministrazioni locali”). Da notare inoltre che quasi 1 milione di euro annuo è rappresentato da imposte sul reddito di esercizio. In pratica la gestione in forma aziendale delle attività svolte da SL costa alla Regione, prescindendo da ogni altra considerazione, circa un milione all’anno di imposte.

Il meccanismo di finanziamento di SL da parte della Regione presenta elementi di forte criticità. Il costo determinato da SL per svolgere una attività di assistenza alla Regione non corrisponde a quello fatturato poiché, altrimenti, SL non riuscirebbe a far fronte alle proprie spese fisse (affitti, utenze e, soprattutto, personale dell’amministrazione non legato ad alcun specifico progetto operativo): per coprire queste spese, il costo di ogni singola persona coinvolta nell’attività viene quindi “caricato” di una sorta di mark up: la differenza tra costo effettivo e “ricavo” imputato alla Regione costituisce il margine che consente a SL di coprire i propri costi fissi.

Questo sistema costo-ricavo, tipico nelle società private di consulenza, suscita perplessità nel caso di una società in house. Non si punta all’ottimizzazione delle risorse pubbliche assegnate bensì alla massimizzazione dell’impegno dei fondi stanziati, al fine di ottenere il più alto margine possibile, necessario per il pagamento delle spese fisse aziendali. In pratica, l’obiettivo non è quello di portare a termine l’attività “Assistenza regionale” nel modo più efficiente (minore spesa) ed efficace, ma quella di ottenere il maggior “profitto” possibile per poter far fronte ai costi di gestione.

Molto diverso è il modello emiliano. Per ciascun progetto selezionato dalla Regione, sulla base delle disponibilità di bilancio, tra quelli proposti dalla società regionale la richiesta di finanziamento “non può superare l’ 80 per cento”. Questa previsione normativa appare di cruciale rilievo in quanto il ricorso allo strumento societario si concretizza, nel caso emiliano, nella possibilità di conseguire gli obiettivi con un risparmio del 20 per cento rispetto alla gestione interna. Il 31 ottobre dell’anno t la società regionale presenta alla giunta il progetto A, da realizzare nell’anno t+1, al costo di 100. La giunta lo approva e stanzia 80 per la sua realizzazione. Eroga 40 al momento dell’approvazione e i residui 40 “sulla base della presentazione di idonea documentazione attestante la realizzazione degli interventi”. L’esatto opposto di quanto si verifica nel caso laziale dove il costo di ogni progetto viene “caricato” di un mark up, per coprire i costi aziendali.

Nel caso emiliano una parte dei costi sono sostenuti evidentemente da altri soggetti, coinvolti nella elaborazione dei progetti, in cambio dei benefici sistemici ricevuti dal progetto medesimo. La Regione in Emilia-Romagna concorre alla realizzazione dei progetti strumento della sua politica economica garantendosi, con una partecipazione, pari almeno al 20 per cento, dei soggetti coinvolti, una selezione oggettiva del carattere virtuoso delle scelte prospettate. In altre parole si ha una sorta di internalizzazione del principio del cofinanziamento, garanzia ex-ante della validità delle iniziative finanziate. Filas sarebbe in teoria la principale controllata di SL. Sviluppo Lazio avrebbe dovuto, negli intenti originari, sostituirla . Ciò non si è verificato e, attualmente Filas esprime un forte grado di autonomia rispetto alla casa madre. La sovrapposizione di competenze con la holding (ed altre società, tra cui BIC-Lazio) non è stata mai risolta e, con la legislatura regionale in corso, si sta addirittura assistendo alla sottrazione di competenze alla capogruppo in favore della controllata.

In effetti le caratteristiche economiche su cui dovrebbe fondarsi una società regionale di sostegno allo sviluppo si ritrovano in Filas, anche se non completamente dispiegate, più che in ogni altra società regionale. L’azione di Filas, come strumento di venture capital, può essere inquadrata sotto il profilo economico nel filone delle esternalità positive. La finalità cruciale del cosiddetto venture capital pubblico si rintraccia, come esplicitato nella missione dell’azienda laziale, nella garanzia di continuità del rapporto tra industria e ricerca e nello stimolo all’imprenditorialità, promuovendo lo sviluppo territoriale e l’occupazione. Nella medesima direzione, ma con maggiore farraginosità, si muove BIC. Come si è detto unendo a Filas, il core business di BIC e alcune attività di SL (in pratica la gestione strategica delle risorse comunitarie), si potrebbe dar vita ad una efficace società di sostegno allo sviluppo, capace di superare le attuali sovrapposizioni e duplicazioni.

Nel Lazio esiste, unico caso in Italia, una banca regionale, la BIL, e un suo doppione minore, Unionfidi. In una riunione nel 2006, alla presenza dell’allora presidente della regione Marrazzo, il presidente di Sviluppo Lazio indicò nella creazione della banca, che aveva appena avuto dal Governatore Fazio l’autorizzazione ad operare, la innovazione fondamentale per la politica regionale. L’obiezione che nessuna regione in Italia avesse sentito il bisogno di approntare uno strumento del genere non ebbe seguito. E si sostenne che questa scelta avrebbe consentito di approntare una struttura capace di sviluppare una enorme leva finanziaria (si parlò di 1 a 20) sulle risorse destinate agli investimenti regionali. In verità per molto tempo la banca restò sostanzialmente inattiva (e si pensò anche di venderla). Poi hanno prevalso gli interessi delle banche socie (BNL, Unicredit, Intesa san Paolo e BCC Roma) che, come viene ampiamente dimostrato, sono, nel loro ruolo preminente di bank originator (BO), i principali beneficiari dell’operazione.

BIL favorisce essenzialmente le BO. La distorsione indotta nel mercato del credito è evidente: queste scaricano la fascia più debole della rispettiva clientela PMI, che selezionano in assoluta autonomia, sulla garanzia regionale; lucrano ricche commissioni senza rischi, mentre le risorse regionali ricevono una irrisoria remunerazione. L’indirizzo regionale di politica industriale appare evanescente, ininfluente sulla destinazione delle risorse pubbliche. Il costo della struttura non indifferente. Sotto il profilo economico grande parte del credito sarebbe probabilmente ugualmente erogato dal sistema creditizio e, in ogni caso, la casualità e la dispersione degli interventi non appaiono in grado di contrastare eventuali processi di razionamento del credito da parte del sistema bancario. L’alternativa a BIL che, analogamente a Unionfidi, potrebbe essere dismessa, è rappresentata da un ponderato piano di politica industriale, sostenuto da una analisi della realtà produttiva regionale, che produrrebbe le linee guida sulle quali selezionare, con procedure competitive, il sistema creditizio con vocazione territoriale, per sostenere le PMI del Lazio. Così avviene nelle Regioni più virtuose (come la Toscana, ad esempio) e non si capisce perché nel Lazio tante energie siano state spese in questo progetto, se non per potere soddisfare una velleità politica. Poter dire, in altre parole “abbiamo una banca!”.

Lait (Lazio Innovazione Tecnologica) è il nuovo nome che ha assunto la società ICT del Lazio (capitolo 7) per cancellare il ricordo di Laziomatica , nata nella VII legislatura e travolta dallo scandalo relativo alla violazione dell’anagrafe del comune di Roma, a ridosso delle elezioni regionali del 2005. La governance interna della società ha subito, nella VIII legislatura, significativi mutamenti. Dal modello iniziale dell’amministratore unico, si è passati al modulo classico (presidente, CDA, direttore), per passare, unico caso nelle aziende regionali, allo schema dell’amministratore delegato. Nel passaggio di legislatura si è registrata una ulteriore discutibile evoluzione: il CDA, a maggioranza, ha revocato le deleghe dell’amministratore delegato, avocandole al Consiglio. Tuttavia l’AD esautorato è rimasto al suo posto, dando vita ad un singolare caso di amministratore privato delle deleghe ma non della corrispondente retribuzione. Tutto questo nel silenzio totale del socio unico regionale.

La riorganizzazione avviata nel 2009 ha registrato una proliferazione di direzioni (tecnologie, progetti e sanità) e di aree (ben 16, nell’ambito delle direzioni, cui si aggiungono 6 unità organizzative). Tutto ciò ha riprodotto, sul piano operativo, l’appannamento dell’identità aziendale realizzato, su quello della governance interna, dalla gestione “assembleare” del CDA. L’analisi del conto economico mostra una crescita del valore della produzione dal 2005 al 2008, cui segue una flessione nel successivo biennio, in coincidenza con la modificazione del modello di governance interna. Dai 37 milioni del 2005, dopo il gradino del 2006 (63 milioni), la produzione continua a crescere anche nei due anni successivi registrando sempre una variazione positiva in corso d’anno. Poi la sensibile flessione fino ai 55 milioni del 2010.

Un processo inverso si registra per i costi relativi al personale che passano dai 9,3 milioni del 2006 (il primo anno in cui il valore della produzione supera i 60 milioni) ai 12,5 del 2010. In termini percentuali il peso del personale passa dal 14,6 al 22,7 per cento. Simmetricamente si evolve il costo per servizi, che cresce dal 2005 al 2008 (fino a 50 milioni), per poi scendere nel biennio seguente (fino ai 36 milioni del 2010), a seguito della contrazione di alcune commesse.E’ urgente quindi l’avvio di un processo di riorganizzazione profondo, che consenta di ritrovare identità ed operatività, dissipate dalla cattiva politica.

Lazio Service è un altro esempio lampante delle disfunzioni prodotte dall’improvvisazione politica. All’avvio della VII legislatura il legislatore stabilisce che “la Regione, al fine di esternalizzare lo svolgimento di attività di servizio effettuate al suo interno anche impegnando lavoratori socialmente utili, promuove”, attraverso SL, “la costituzione di una società di servizi”, di cui la Regione si avvale per le attività esternalizzate, “nonché per lo svolgimento di servizi aggiuntivi non precedentemente affidati in appalto o in concessione”.

Nel corso della legislatura la società cresce assumendo, con forme di lavoro temporaneo e precario, centinaia di giovani, impiegati, senza alcuna pianificazione, negli uffici della Regione, a sopperire, nel migliore dei casi, alle improduttività e alle inefficienze del personale regionale. In alcuni anni, con progressive stratificazioni, il disastro si compie. Una categoria di lavoratori sottopagati e precari si ritrova negli uffici regionali, a fianco dei dipendenti di ruolo. Il concorso pubblico, obbligo costituzionale per accedere ai pubblici impieghi, viene eluso. I criteri selettivi sono pressoché nulli o meglio, clientelari, spartiti tra maggioranza ed opposizione. E soprattutto si crea una insanabile discriminazione tra quei giovani che, in qualche modo, riescono a trovare il modo per entrare nel gruppo, e la massa degli esclusi, radicando la convinzione dell’impossibilità di avanzare nel mondo del lavoro e nella società in base alla preparazione e all’impegno. Guasti insanabili che, nella VIII legislatura, esplodono immancabilmente e portano alla inevitabile stabilizzazione. Ma l’identità di Lazio Service, con i suoi 1.370 dipendenti, resta sfuocata e appannata. E’ un frutto della cattiva politica, nazionale (i lavoratori socialmente utili) e regionale (la contrattualizzazione a termine di centinaia di persone, senza alcun motivo funzionale). La commistione funzionale e logistica con la Regione, che aveva determinato i rilievi della Corte dei Conti, resta ancora oggi irrisolta ed è fonte di sprechi ed inefficienze. Siamo in presenza di una agenzia di lavoro interinale in house, sconosciuta in ogni altra regione italiana. L’intuizione dell’accordo sindacale del 2006 resta valida: nel rispetto delle procedure previste dalla legge, con i tempi necessari, vanno indetti concorsi pubblici per portare nella amministrazione i dipendenti; successivamente LS potrà essere liquidata.

Questo in sintesi il quadro complessivo delle società in house laziali tracciato nel presente studio. Molte ombre, alcune luci, che hanno all’origine una legislazione nata con un difetto congenito: la tutela del mercato tramutata in tutela dal mercato, che ha favorito un uso spropositato e distorto delle società in house.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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