In house providing: i piedi della politica nella P. A. Il caso Lazio

di Marcello Degni
Pubblicato il 18 Ottobre 2011 - 11:38| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – L’in house providing, espressione apparsa in ambito comunitario nel 1998, è la forma giuridica utilizzata per indicare i casi di “autoproduzione” di beni, servizi da parte della pubblica amministrazione, che si verificano quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio all’interno della propria compagine organizzativa, senza ricorrere a soggetti esterni operanti sul mercato tramite una procedura di gara. L’utilizzo dell’in house providing ha avuto una larghissima diffusione nella pubblica amministrazione italiana, con le Regioni in prima fila. Il perimetro delle attività si è via via ampliato, dai servizi di utilità pubblica ai servizi meramente strumentali ed allo svolgimento dell’attività amministrativa, sollevando molte discussioni sull’uso di tale modello organizzativo.

Il caso della Regione Lazio, oggetto specifico del presente studio, consente di analizzare natura, limiti, uso ed abuso dell’in house providing, muovendo l’indagine dalle modalità di recepimento nella legislazione nazionale. La disciplina dell’in house providing, nella sua originaria formulazione comunitaria, ha inteso colmare una lacuna dell’ordinamento, individuando caratteri e limiti di un procedimento che resta pur sempre un’eccezione rispetto alla regola generale per cui le amministrazioni pubbliche acquisiscono beni e servizi ricorrendo al mercato attraverso procedimenti ad evidenza pubblica.

Nella tutela del mercato il legislatore comunitario ha ritenuto di individuare la premessa regolatoria delle società in house, escludendole da qualsiasi attività esterna rispetto alla pubblica amministrazione e ritenendo in esse implicitamente soddisfatta la realizzazione della economicità dei costi. Tuttavia, l’economicità non è intesa nel senso di uso efficiente delle risorse produttive, ma più limitatamente come possibilità per la società in house di coprire attraverso contratti pubblici, in tutto o in parte rilevante, i costi generali di impresa, con un evidente vantaggio competitivo rispetto alle società operanti sul mercato. Ma il fatto che questa condizione di efficienza sia reputata soddisfatta non implica di per sé che lo sia nella realtà: per il motivo evidente che si tratta di imprese non contendibili in cui la valutazione dell’efficienza attraverso il mercato è esclusa da una norma che, intesa a tutelare il mercato da tali imprese, le ha di fatto protette dalla disciplina del mercato stesso.

Questo paradosso ha offerto alla politica uno straordinario strumento in cui: la forma privatistica societaria ha sottratto le imprese in house alle procedure vincolistiche della pubblica amministrazione; ed i limiti posti dal legislatore all’attività di tali imprese sul mercato le ha sottratte alla disciplina ed al controllo dell’efficienza economica. Si è formato così un territorio protetto dove scatenare due impulsi difficilmente contenibili: le assunzioni clientelari e l’assegnazione discrezionale dei progetti.

La questione, in termini generali, è stata sollevata con grande rilievo in questi ultimi anni (Cesare Salvi, Massimo Villone, I costi della democrazia, Mondadori, 2007; Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, La casta, Rizzoli, 2007 e, con riferimenti al Lazio, Marcello Degni, Micromega n.3/2010), mostrando che proprio le aziende partecipate rappresentano un potente veicolo di alimentazione dei costi della politica. Il legislatore nazionale ha cercato di arginare il fenomeno con norme restrittive della possibilità di costituire società da parte degli enti appartenenti alla pubblica amministrazione ma, come emerge dalla interpretazione, abnormemente estensiva, delle disposizioni legislative, tale intento è stato largamente eluso.