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Genova per loro, ma non per noi. La “gramitudine” di una città vecchia

di Marco Benedetto |24 Gennaio 2013 14:17

Genova per loro, ma non per noi. La “gramitudine” di una città vecchia

“Genova per loro, ma no per noi”, pubblichiamo un contributo di Michele Marchesiello sulla sua città che per cortesia definiremmo “agé”, ma per la quale, a essere onesti, dovremmo spendere un solo aggettivo: grama.

“Genova per noi / Che siamo in fondo alla campagna […]  Genova, dicevo, è un’idea come un’altra…

, Genova è per loro, che sono in fondo alla campagna, e hanno il sole in piazza rare volte, mentre il resto “è pioggia che li bagna”. Come nella canzone di Paolo Conte, Genova è per loro, quelli che non hanno quasi mai il sole in piazza (quanto alla pioggia, meglio lasciar perdere ormai). Ma non per noi che ci viviamo, abitanti di una città più che avara, “grama”. Da cui “gramitudine”, il sostantivo che forse descrive meglio la condizione e lo spirito di una città che vive il proprio declino con un sentimento di malmostosa impotenza.

Chi ci è nato non se ne accorge quasi. Ma basta trapiantarlo altrove (non occorre andare lontano, mettiamo a Voghera o Sarzana) e si trova, lui stesso incredulo, a rinascere diverso, liberato dalla “gramitudine” che lo opprimeva. Se ne accorgono i turisti, che appena usciti dall’acquario si affrettano verso l’autostrada, impauriti all’idea di restare imprigionati da questa città “un po’ così”, capace di ipnotizzarli e avvolgerli come un pitone nelle spire del suo famelico immobilismo.

A Genova è quasi impossibile muoversi, non solo fisicamente, ma anche – soprattutto – mentalmente. Anche la mente è, come suggerisce il nome di una delle poche iniziative vitali della città – “locale”. Città di vecchi, si sa, ma di vecchi insofferenti, aspri: grami, appunto, che trascinano il loro malumore tra il “bisagnino” , il “tabacchino” e il “farinotto”.

Si nasce vecchi, a Genova, o si impara presto a esserlo. Basta leggere i suoi giornali, guardare le sue vetrine, affacciarsi ai suoi rari caffè, orecchiare quella còcina ( genovese, per ‘accento’) così lamentosa, ingiustamente avvicinata al portoghese che è, se mai, malinconico e trasognato. Basta avventurarsi coraggiosamente nei suoi giardini pubblici abbandonati all’incuria , abitati da tossici e barboni. Basta fare una “vasca” nella un tempo sofisticata via XX Settembre, oggi dominata da negozi paravento, i bei pavimenti liberty butterati per le schifose macchie dei chewing-gum. Una peste, una lebbra inarrestabile percorre questa città una volta bellissima, orgogliosa: “superba”, appunto.

Loro, i genovesi, non ne hanno colpa, in fondo: si sforzano addirittura di apparire diversi, di provocare non la simpatia degli altri ( cosa che in genere li lascia indifferenti) ma quella che loro stessi sono incapaci di provare. Quei pochi che ci riescono hanno un successo straordinario: i Don Gallo, i Grillo, i Crozza, i De Andrè (anche se definire simpatico quest’ultimo richiede non poco sforzo). La convivialità, come il decoro, è assente. Ci si trova tra accoliti reciprocamente diffidenti, piuttosto che tra amici. I regali e gli inviti – orrore! – devono essere ricambiati al più presto.

Il decoro pubblico ha ceduto al degrado sistematico: dai Parchi di Nervi all’Acquasola, alla Villetta Di Negro, ai Giardini di plastica, alle stazioni ferroviarie di Brignole e Principe, eternamente prive del quadro degli arrivi. Da Genova, infatti, si può soltanto partire. Chi passi per l’aeroporto, poi, ha la singolare esperienza di un meraviglioso tableau vivant meccanico, aeronautico presepe che si mette in moto, come i suoi nastri trasportatori, solo in occasione dei rari atterraggi.

Né consola, lì a fianco, la vista inquietante della collina di Erzelli, illuminata a giorno: irraggiungibile sogno tecnologico, simbolo di una modernità non si sa se più temuta o invocata. Smarrito il gusto della generosità e del rischio, Genova si lascia sedurre (e poi abbandonare) da progetti tanto illusori, quanto efficaci come sedativi. Si è sedati dalla chiacchiera pubblica su un da farsi che non si fa mai, se non per accidente. Il raro “nuovo”assume in fretta l’aspetto laido del vecchio. Il quartiere sorto negli anni ’60 intorno a Piccapietra e all’antico ospedale di Pammatone, trasformato in tribunale, ne è la prova. E’ impressionante il richiamo a Staglieno. Nelle “gallerie”, dalle saracinesche abbassate su negozi vuoti, sorgono ogni notte gli accampamenti di cartone dei disperati. Ho visto scene simili a Bombay, negli anni ’70.

E disperati si raccolgono ogni giorno, davanti al portone sbarrato della Prefettura: Agitano le loro bandiere e le loro proteste sulla faccia dei poliziotti in tenuta da sommossa . Chiedono lavoro: la gente passa e qualcuno borbotta a mezza voce “Imbecilli! Andate a lavorare!”. Appunto. Chiudono i negozi, scompaiono i nomi famosi, le ditte prestigiose, sostituiti dai “compro oro”, dalle sale da gioco, dai bingo dove i vecchi consegnano alla sorte le povere pensioni.

Musi lunghi e mugugni dappertutto. Ovunque regna il disprezzo per la cosa pubblica: dai tornelli di una risibile – ma costosissima – metropolitana, lasciati aperti al passaggio dei portoghesi, alla segnaletica stradale in abbandono, ai famosi ascensori di Caproni, soggetti a interminabili, improbabili manutenzioni. I lavori stradali perennemente in corso, alcuni camminamenti tra i più suggestivi addirittura chiusi al transito e in stato di abbandono: è il caso clamoroso di salita della Misericordia, la – oggi non più – bella creuza che collega Via San Vincenzo all’Acquasola.

Ogni giorno percorro la salita inferiore di San Rocchino: un’altra vecchia creuza che da Piazza Corvetto conduce ai quartieri alti della Circonvallazione. Lungo la mattonata un susseguirsi di chiazze di vomito, cartoni di pizza sporchi di salsa, piatti di plastica, tracce dei pasti che le suore distribuiscono a poveri veri o supposti. E poi, naturalmente, lacci, siringhe, pubblicità d’annata e vecchi s… (nel senso di s…invecchiati) che, ormai familiari, additano al viandante la strada di casa .

Il volto della politica rispecchia questa aridità dell’emozione, della condivisione, della simpatia reciproca. Il sindaco Doria è un reperto, alla Antonioni , di quella “incomunicabilità” che credevamo sepolta tra il bric à brac degli anni ‘60. Non che lui non ci provi, ma è davvero una mission impossible comunicare passione a questa città. Gli amministratori si muovono lungo via Garibaldi come bambini imbronciati, tirandosi dietro, col trolley, il bilancino per registrare in ogni istante gli instabili equilibri della politica locale. Ci si unisce per dividersi meglio. L’ostilità è una porzione di farinata fredda (la torta di riso, si sa, è finita da tempo) che si preferisce consumare in famiglia. Gli avversari sono i migliori alleati per ordire trame dal copione risaputo. Si inventano nuovi motivi per inscenare vecchi contrasti: la “gronda”, il “terzo valico”, la moschea, il nuovo stadio di calcio…già, meglio tacere del calcio genovese.

La stessa corruzione – quella, almeno, che si rende visibile – vi è mediocre: rifugge da ogni aspetto di cupa e lugubre grandezza. Il peculato rispecchia una meschina, grama sobrietà: indumenti, una notte ad Acqui Terme, una pizza a Limone Piemonte, formaggi in Val D’Aveto. Non che manchino i grandi corruttori e un potere parassitario diffuso che sfrutta la città e le sue modeste ambizioni di metropoli mancata. Solo grandi ambizioni – di cui la città non sembra capace – metterebbero in crisi il sistema di potere che la opprime attraverso i suoi inamovibili attori, i soliti noti. Più che “per loro”, Genova sembra rassegnata a essere diventata “loro”.

E c’è, incredibile, chi ritorna. Per sùbito pentirsi di aver ceduto al ricatto della nostalgia. La vecchia canzone dell’emigrante genovese che, dopo una vita trascorsa nelle Americhe, decide di tornare alla sua città “…a vedde i monti’,’ a ciassa da Nonsià’ e la ‘ Zena illuminà’ amorevolmente custodita dalla memoria, richiederebbe un aggiornamento. L’emigrante – precariamente aggrappato a un bilocale a Begato – supplica il figlio, saggiamente rimasto tra i ‘carramba’ sud-americani, di mandargli al più presto, via Western Union, un biglietto di ritorno.

E poi c’è il porto, l’eterno porto che dovrebbe ricordare a Genova la sua vocazione. Segretamente, la città odia il porto, venendone ricambiata. Non ne tollera i fumi, i rumori, il traffico, gli odori, le liti per il controllo delle banchine. Il porto le ricorda il passato, la mette davanti a quello che non è più, che non può essere più. La città, a sua volta, è vissuta dal porto come un ostacolo che impedisce a traffici e merci di raggiungere i mercati dell’Oltregiogo. Il mare stesso lambisce la città con diffidenza, a volte assalendola come a volerla scuotere dalla sua apatia.

Intanto la Foce è diventata un parcheggio, la Fiera respinge la nautica, le crociere cercano – e trovano – altri approdi, mentre nel Porto Antico le vele di Renzo Piano non salpano mai e i gamberoni rossi si mangiano, da Eataly, un po’ dovunque. Su Genova regna, invincibile, la “macaia”. E’ ancora Paolo Conte, un foresto, a ricordarcelo:

“Macaia, scimmia di luce e di follia, / foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia. /E intanto all’ombra dei loro armadi / Tengono lini e vecchie lavande.”

Anche se armadi, biancheria e lavande si trovano, oggi, all’IKEA di Campi.

 

 

 

 

 

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