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Pensioni d’oro. Corte dei Conti: “Incostituzionale, ecco perché”

di Michele Marchesiello |22 Ottobre 2019 14:23

Pensioni d'oro. Corte dei Conti: "Incostituzionale, ecco perché" (Foto archivio Ansa)

Pensioni d’oro. Corte dei Conti: “Incostituzionale, ecco perché” (Foto archivio Ansa)

ROMA – Una prima ordinanza del giudice contabile rimette alla Corte Costituzionale la questione della legittimità della recente normativa che taglia le cosiddette “pensioni d’oro”. Una recentissima ordinanza della Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia ( 17 ottobre ) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità della legge 30/12/2018 n. 145, per contrasto con gli articoli 3,23,36,38 e 53 della Costituzione, nelle parti in cui a) riduce per un triennio la rivalutazione delle pensino di elevato importo e b) decurta in percentuale per un quinquennio l’ammontare lordo delle medesime pensioni.

Il giudice contabile ha ritenuto che le misure in questione “non si iscrivono nel perimetro tracciato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.173 del 2016’ con la quale – pur ritenutasi la legittimità di analoghe misure prese sotto la denominazione di contributo di solidarietà – venivano fissati i limiti rigorosi entro cui – per il futuro – si sarebbe potuto confermare il giudizio di legittimità di norme aventi lo stesso fine e gli stessi contenuti”.

In primo luogo, il prelievo in esame non può mai configurarsi come un vero e proprio tributo ( come tale acquisito allo Stato e destinato alla fiscalità generale ) ma come prelievo operato direttamente dall‘INPS per trattenerlo all’interno delle proprie gestioni con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali: in particolare a vantaggio dei cosiddetti esodati.

In secondo luogo, il contributo di solidarietà deve rispondere ai principi di ragionevolezza, affidamento e tutela previdenziale: principi il cui rispetto deve fare oggetto di uno scrutinio stretto, vale a dire particolarmente rigoroso, di costituzionalità. I criteri per valutazione positiva del contributo di solidarietà sono stati così indicate dalla Corte stessa:

-la misura deve operare e i suoi effetti devono mantenersi strettamente all’interno del complessivo sistema previdenziale;

-dev’essere imposta dalla crisi grave e contingente del medesimo sistema;

-deve incidere sulle pensioni più elevate;

-deve presentarsi come prelievo sostenibile;

-deve rispettare il principio di proporzionalità;

-dev’essere comunque utilizzato come misura una tantum.

Ad avviso del giudice contabile, la normativa di cui alla legge 145/2018 non sembra rispondere ai requisiti come sopra fissati dai Giudici delle Leggi, né sotto il profilo del carattere non tributario, né sotto quelli della ragionevolezza, dell’affidamento e della tutela previdenziale.

Quanto al primo punto, le norma in esame non sono vincolate in alcun modo – formale o sostanziale – a finalità solidaristiche endo-previdenziali. Non viene precisato in alcuna sede, infatti, a quali finalità debbano essere destinati i proventi del ‘taglio’. La stessa denominazione contributo di solidarietà è scomparsa dal testo definitivo della legge di bilancio approvata dal parlamento, restandone ribadita la connotazione finanziariamente neutra e quindi la natura di vero e proprio tributo, giustificato espressamente da esigenze di fiscalità generale.

Quanto al secondo punto, il giudice contabile ha osservato che le norme in esame – inserite in un più ampio contesto temporale – denunciano l’intento del legislatore di incidere in termini durevoli e definitivi sulla condizione soggettiva e oggettiva dei destinatari delle pensioni. Nell’arco di oltre dieci anni, infatti, le pensioni più elevate hanno subito retiterate, sistematiche decurtazioni. Difetta pertanto, nell’ azione del legislatore, l’elemento fondamentale costituito da una situazione di crisi grave e contingente del sistema previdenziale, mentre è evidente l’intento di individuare nuovi mezzi di copertura ‘ordinari’ mediante un prelievo selettivo a carico di alcune categorie di cittadini pensionati, il cui reddito è pur sempre un reddito da lavoro, ancorché temporalmente differenziato.

Lo stesso dato temporale (durata quinquennale) presenta aspetti di grave, evidente irrazionalità. I destinatari delle misure hanno quasi sempre un’età così avanzata da rendere definitiva la decurtazione, per non dire che – allungandosi indefinitamente i tempi – la stessa categoria colpita tenderà ad estinguersi naturaliter.

In sostanza, osserva il giudice contabile, il prelievo in questione appare ingiustificato e discriminatorio, non idoneo a realizzare quell’adeguato e ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, quale sarebbe richiesto da una interpretazione ‘stretta’ di costituzionalità. Un ulteriore e non irrilevante profilo di incostituzionalità è rappresentato, infine, dall’effetto definitivo che consegue a ogni intervento di blocco o riduzione dell’adeguamento delle pensioni. La relativa perdita del potere d’acquisto non è infatti più recuperabile, in quanto le successive rivalutazioni sono calcolate non sul valore originario ma sull’ultimo valore già vulnerato dal mancato adeguamento.

Per queste ragioni, dunque, la disciplina introdotta dal legislatore è apparsa, al giudice contabile, non ragionevole né rispettosa dei canoni di proporzionalità, della tutela previdenziale e – last not least – dell’affidamento nei confronti di cittadini che – esaurita la vita lavorativa – non sono neppure più in grado di concorrere a ridisegnare il rapporto di lavoro. Ci si deve augurare che l’ordinanza dei giudici triestini sia la prima di una serie, e – soprattutto – che La Corte Costituzionale si mostri tanto saggia , per non dire coraggiosa, da accogliere le molteplici ragioni poste a fondamento di un giudizio di illegittimità.

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